Piero Scandura 2022 (It/En)

Piero Scandura

di Andrea B. Del Guercio

La Galleria

Ho incontrato Piero Scandura all’interno di uno spazio espositivo dedicato al suo lavoro nell’estate del 2021 a cui ha fatto seguito una più approfondita osservazione dei suoi processi espressi nello Studio di Fosdinovo in vista della stesura di questo contributo critico, introduttivo alla Monografia; la Galleria che seppure presentava un limitato numero di opere e in gran parte di piccole dimensioni, aveva attratto la mia attenzione confermando quanto la dimensione caleidoscopica del patrimonio contemporaneo presenti costantemente interessanti ‘scoperte’; il secondo passaggio rappresenta il superamento della ‘curiosità’ e lo scavalcamento di quella fase solo introduttiva a cui fa seguito il momento del confronto e dell’indagine, della relazione con la storia di un artista, con la percezione approfondita dei suoi valori distribuiti nelle sezioni e nei cicli diversi che si sono succeduti negli anni della creatività.

Una cultura visiva in cui si affermava la dimensione incisiva  del ‘colore disegnato’, era alla base di quel primo incontro del tutto casuale e non programmato; lo spazio pittorico, contrassegnato significativamente dal formato quadrato del supporto, ospitava la perfetta relazione tra l’estensione monocroma del fondo con la struttura dettagliata del soggetto. Nella definizione “perfetta relazione” intendo riferirmi alla percezione di quel rapporto riscontrabile nella nobile cultura degli incunaboli dove la miniatura rinascimentale dettaglia l’immagine tra la vivacità del colore e il disegno della figura, delle architetture e degli stessi paesaggi. La memoria visiva mi aveva subito supportato andando a suggerire l’esperienza vissuta in epoca universitaria nella schedatura delle miniature di Zanobi Strozzi, raccolte ed esposte nel Museo di San Marco a Firenze; la relazione tra autori di stagioni così distanti, tra lo stesso Zanobi Strozzi, allievo del Beato Angelico e Piero Scandura, era del tutto evidente attraverso l’impiego della scala cromatica gestita a contrasto nelle relazioni proposte da un sistema espressivo fondato sulla definizione delle ‘forme’, frutto di una ‘concettuale’ sagomatura dei soggetti presenti: è utile leggere ed estrapolare dalla descrizione che Giorgio Vasari ci fornisce — nella Vita di Frà Giovanni da Fiesole — della cultura policroma nella redazione di preziosi libri minati: “In detto libro [Silio Italico] Ha i calzaretti gialli… [Publio Cornelio Scipione] ha indosso una corazza gialla, i cui pendagli e maniche di colore azzurro… Le calze sono di color verde e semplici e la clamide, che è azzurra, ha il didentro rosso con un fregio attorno d’oro… [Annibale] Ha in testa una celata gialla, per cimiero un drago verde e giallo… ha la corazza azzurra et i pendagli parte azzurri e parte gialli, con le maniche cangianti d’azzurro e rosso, et i calzaretti gialli. La clamide è cangiante di rosso e giallo, aggruppata in sulla spalla destra e foderata di verde; e tenendo la mano stanca in sulla spada, posa in una nicchia di mischi gialli, bianchi e cangianti… [papa Nicola Quinto è inserito in una nicchia] verde, bianca e rossa.”

 

Beato Angelico “Conversione di San Paolo” Messale 558, 1420 circa

 

Il processo del “work in regress”, impostato da Claudio Costa già negli anni ’70, ed a cui sono fedelmente legato, mi aveva esemplarmente condotto alle origini antiche di quel patrimonio policromo su cui si inserisce la stagione moderna e contemporanea — ma che sfugge a molti per superficialità e incompetenza; ricondurre l’attenzione del lettore dell’opera di Scandura alla cultura rinascimentale, in particolare alla sfera progettuale della pittura e della miniatura fiorentina, deve rappresentare non solo una suggestione e un rimando colto ma qualifica il processo culturale di riferimento dell’autore, la sostanza concettuale del suo intervenire sulla realtà oggettiva, sulla definizione architettonica dello spazio e sulla centralità degli ‘attori’ in esso presenti. Un processo che riconosce nel patrimonio non solo la dimensione ‘antica’ e ‘storica’ ma quella che vive in stretta relazione con la dimensione contemporanea, di cui viene a far parte per via della nostra percezione e fruizione.   

Lo Studio 

La sosta in Studio rappresenta un secondo passaggio nel mio ‘avvicinamento’ all’opera di Piero Scandura, avvenuta solo poche settimane fa e per me indispensabile per cercare di entrare in sintonia con un progetto espressivo, intuito ma che necessita di conoscenza ‘diretta’; qui, immersi nella luce straordinariamente limpida di un maggio che anticipa un giugno troppo caldo, la dimensione caleidoscopica dell’attività pittorica, sostenuta da una fase preparatoria fatta di appunti e di progetti disegnati, mi ha permesso di confrontarmi con l’effettiva identità del suo lavoro. Qui la ‘luce’, proveniente con tutta la sua estensione dalla vicina costa tirrenica, gioca un ruolo particolare e sicuramente importante nella definizione di un ‘paesaggio’ che fluttua costantemente tra interno e esterno; la ‘luce’ dettaglia lo spazio, organizza l’ingombro degli oggetti attraverso le ‘ombre’, accende di intensità fino a far ‘volare’ le quinte teatrali dell’habitat privato; la Casa-Studio vive e suggerisce all’artista l’instabile passaggio tra il dentro e il fuori andando a contrassegnare lo sfarfallio cromatico della pittura, la quale a sua volta attraverso le grandi e le piccole dimensioni apre, alla maniera di Matisse, e spagina le pareti, accentuando la dimensione felice dell’architettura d’interni…punteggiata da arredi monocromi in un contesto policromo: “…1) azzurro chiaro quasi bianco, 2) rosso vermiglio freddo che ha preso per vicinanza, nell’accostamento, la profondità, la morbidezza del rosso veneziano (perchè allora non ho preso del rosso di Venezia? ,a perché le sue  reazioni sui vicini sono meno intense, 3) tavola violetto cobalto chiaro che mi hai visto adoperare a questo scopo, quindi ne conosci, l’intensità, 4) ocra gialla pura di striscio, 5) carni, rosa cadmio vermiglione un pò caldo…” (H.Matisse tratto da un documento del 1940 raccolto in “Scritti e pensieri sull’arte”, Einaudi 1979.

Sostare negli ambienti, in cui i quadri e i disegni preparatori sono nati, mi permette anche di fare delle ‘scelte’ e di dare dei suggerimenti in merito alla programmazione di questo volume per poi allargare la nostra discussione all’attività espositiva futura; la frequentazione della pittura mi permette di entrare a far parte di essa, di sostare al suo interno, a tutti gli effetti di viverla come realtà quotidiana.  

Sostare per vedere vuol dire incamerare dati preziosi sapendo che in fase di quella successiva riflessione che conduce alla redazione di un contributo critico, risulteranno utili strumenti di elaborazione; lo sguardo si posa e scivola per soffermarsi sulle grandi tele quadrate appassionandosi a quel vuoto che tutto avvolge attraverso la vivacità dialettica di ampie stesure di colore, spesso prediligendo tensioni acide come i verdi chiari, gli aranci che si scontrano con i fucsia, i gialli con gli azzurri poi attraversati, come incubi notturni, dall’ombra blu di una sedia-ragno.

Ed è grazie a quella verifica in Studio che, in fase di redazione del testo, la mente ancora una volta mi rimanda e mi suggerisce un’altra sosta nel patrimonio felice dell’arte, per cui aggiunge al passaggio nel rinascimento un’attenzione alla leggerezza del ‘700 francese; inevitabilmente faremo i nomi di Francois Boucher e in particolar modo con la pittura di Jean-Honoré Fragonard, con gli spazi teatrali di Claude Gillot — anche se tutto questo sembra voler ‘tradire’ il rigore progettuale toscano; ma la storia dell’arte dimostra di essere una materia viva, in grado di sapersi anche contraddire, fornendo suggestioni imprevedibili — ad arroganti presupposti estetici e dettami ideologici. 

Francois Boucher “Odalisca” 1745

Jean-Honore Fragonard “Amanti felici” 1765 

La ‘tavolozza’, come si diceva un tempo, è la stessa, con i medesimi rossi accesi e i blu intensi ed ancora i gialli degli abiti che diventano le superfici e i piani di una casa, mentre le carnagioni di giovani amanti mantengono i rosa per le morbide forme di moderne dormouses; ma il confronto e il collegamento, forse e anzi molto probabilmente non previsto da Piero Scandura, è riferibile alla grande libertà della sua pittura che è in grado, ribaltando improvvisamente il rigore del disegno, di optare, per la propria libertà tra tende floreali e nel movimento di specchi-frammenti.

Il volume

Molto lavoro troverà posto nel volume monografico dedicato a Piero Scandura soffermando la documentazione sull’intero iter espressivo e particolarmente sull’arco recente di opere costantemente contrassegnate dalla persistente presenza di quegli arredi che hanno costituito l’asse privilegiato del design nella forbice tra gli anni ’30 e ’50, da Josef Albers a Marco Zanuso, da Marcel Breue al supporto tecnico condotto all’interno delle grandi aziende d’avanguardia. Predominante è la presenza, tra superfici spaziali che si intersecano e che si ribaltano tra orizzontalità e verticalità, di poltrone, divani e sedie, spesso in primo piano ed in alcuni casi distribuiti nell’estensione di un habitat familiare. 

Prediligo il confronto visivo con le grandi dimensioni in cui l’imponente poltrona blu assume quelle proporzioni monumentali che nella realtà le permettono di ‘occupare’ lo spazio della fruizione, così che delle tele più piccole posso immaginarne lo sviluppo. Una accurata serie di disegni preparatori, racchiusi in una vera e propria Collezione autonoma, rivelano tutta la determinazione progettuale di Scandura con risultati estetici che ne confermano il valore e lo pongono in corretta relazione con quell’area della figurazione che attraversa internazionalmente l’intera stagione contemporanea.

Non abbiamo qui la necessità di inseguire quelle forme di giudizio critico che  continuano a  ‘dettagliare’ movimenti e gruppi, neo-tendenze e post-aggregazioni, mentre dobbiamo prediligere l’osservazione dei valori e delle soluzioni individuali, i frutti nati dalle contaminazioni linguistiche, l’apporto alla dimensione caleidoscopica del concetto di ‘patrimonio’ della cultura dell’arte; ed è in base a questo orientamento che si pone l’opera di Piero Scandura, con le sue relazioni antiche e nel positivo confronto con un presente che include autori diversi ed in particolar modo l’opera recente di  David Hockney, ma che deve include la dimensione vitale di Titina Maselli e il rigore progettuale di Valerio Adami. Non deve sfuggire il contributo fornito in fase didattica, ma con autentico valore esperienziale, da Umberto Buscioni di cui Scandura fu allievo negli anni ’80; del Maestro della Pop Art ha appreso tutta quella libertà creativa ma anche il mirato senso di responsabilità con cui opera all’interno del patrimonio colto della storia dell’arte, — nello specifico per Buscioni rivisitare il Manierismo e Jacopo Carucci detto il Pontormo — svolgendo un ruolo determinante nel processo di rinnovamento dei linguaggi  visivi. Su questa base di riflessione il volume ha il compito di documentare il processo sistematico della ricerca, la progressione linguistica verso nuove soluzioni. 

Design

Sebbene non si possa non parlare per Piero Scadura di una dimensione figurativa, in realtà ci troviamo in presenza di un sistema iconografico che si specifica nella cultura moderna e razionalista del design, intesa sin dai suoi esordi e lungo uno sviluppo e una diffusione tutt’ora caratterizzante il paesaggio abitativo di ampie fasce sociali. Questi dati indicano una elaborazione espressiva in cui i processi analitici della forma risultano determinanti e quindi concettualmente orientati oltre ogni proiezione ‘naturalistica’ dell’immagine, prediligendo l’oggettività simbolica delle funzioni rappresentate — i processi del riposo nella lettura, del parlare e dell’ascoltare, quindi dedicate alla centralità del ‘pensare’. 

Ogni dipinto, sostenuto dalla presenza di una miriade di ‘disegni’ e da una serie di ‘studi preparatori’, ospita un Catalogo ‘fotografico’ dedicato a quei prototipi, noti e ampiamente distribuiti, di sedie, poltrone e chaiselongue che diventano divani, in alcuni casi accompagnati da tavoli bassi che ‘abitano’ salotti vivacissimi. Si tratta di vere e proprie presenze, sicuramente tangibili, con una ricca serie di riferimenti cinematografici in grado di ‘animare la scena’, di spettacolarizzare la vitalità attraverso la spensieratezza gioiosa dei colori pastello, mentre i blu e i rossi più ‘carichi’ stravolgono imponendosi come attori-mattatori, per poi lasciare spazio alla fredda luce azzurra di un’alba chiara sul mare, poi le calde ombre di un tramonto arancio, pervase da angosce violacee. 

Scandura ‘abita’ con il colore inteso come luce e come materia, integrando le loro presenze attraverso la costante ricerca tra equilibrio e disequilibrio, ribaltamento di piani e interferenza di superfici, così che le diverse ‘sedute’ coinvolte non possano mai stazionare immobili nello spazio, ma prediligere l’estensione vitale di forme disegnate. Sono ancora una volta  le ‘carte’, materiali preziosi per un collezionismo raffinato e competente, ad essere i primi testimoni della ricerca di Scandura, affrontati come sede della sperimentazione dei linguaggi, tra la progettazione dei volumi — le funzioni — e il confronto con il colore  — la vita — così che possano prendere sostanza le opere pittoriche nelle più ampie ed estese dimensioni dei telai. 

Piero

Nell’ultimo passaggio di queste brevi riflessioni non possiamo non andare a riconoscere quel riservato ‘autoritratto’ che attraversa l’intero ciclo di opere testimoniato dall’insistita presenza di sedie e poltrone; non dovrebbe sfuggire come l’assenza di un corpo e di un volto, nella dimensione spaziale del dentro e del fuori, suggerisca una frequentazione nella quotidianità dell’habitat attraverso un soggetto ‘altro’. La mia impressione, dichiarata uscendo dalla Casa-Studio di Scandura, è che sia lo stesso artista a riconoscersi negli oggetti elencati ed attraverso di essi essere in grado di ‘raccontare’ quegli stati d’animo che percorrono la mente nelle fasi del riposo e della riflessione. 

Ma se questo è il dato che attribuiamo al nostro autore, ci è possibile immaginare senza difficoltà un frequentatore della casa, aperta sul giardino, ma anche provare a dare un nome all’utilizzatore di quelle sedute; si tratta di un processo semplice di immedesimazione che a sua volta rinvia non solo al valore affettivo della propria abitazione, ma anche alla sua accurata dimensione estetica.  D’altra parte la depersonalizzazione dell’oggetto appartenente ad un processo di industrial design di fatto permette per contrappunto dialettico un’acquisizione democratica da parte di colui che ne usufruisce, sulla base e sulla spinta di una scelta di confronto culturale con la contemporaneità… permettendoci di affermare che ogni quadro-autoritratto di Piero non può che essere  il ‘quadro-ritratto’ che ognuno di noi attribuisce a se stesso — ma qui entriamo nella sfera dell’ego.  

 

Piero Scandura

By Andrea B. Del Guercio

The Gallery

I met Piero Scandura in an exhibition space dedicated to his work in the summer of 2021, which was followed by a more in-depth observation of his work process in the Fosdinovo studio when I knew I would be writing a critical contribution to introduce the Monograph; though only a limited number of mostly small-scale works were on display, the selection I found at the gallery did not fail to attract my attention by confirming how the kaleidoscopic dimension of today’s art heritage can constantly present interesting “discoveries”; a second step was to be taken then to go beyond mere “curiosity” and overcoming that introductory phase that is followed by acts of comparison and investigation of the artist’s relationship with history and of the in-depth perception of his values as distributed in the various sections and cycles he has worked on throughout his creative career.

The basis of that first completely fortuitous encounter was a visual culture where the incisive dimension of “drawn colour” was established; the pictorial space as qualified by the support’s square format can host the perfect relationship between the background’s monochrome extension with the subject’s more detailed structure. When I say “perfect relationship” I refer to the perception of the relationship found in the noble incunabula tradition, in which the Renaissance miniature presents an image enriched by both the bright colours and the detailed figures, architectures, and landscapes. Visual association came to my aid by suggesting the experience I lived in my university years filing Zanobi Strozzi miniatures, collected and exhibited at the San Marco Museum in Florence; the relationship between authors belonging to so distant periods, Zanobi Strozzi, pupil of Blessed Angelico, and Piero Scandura, is completely evident when considering the use of the chromatic scale based on contrast in the relationships made possible by an expressive system founded on the definition of “forms”, the result of a “conceptual” outlining of the subjects being included: it is useful to consider the description Giorgio Vasari provides us with — in the biography of Fra Giovanni da Fiesole — of the polychrome culture that marked costly illuminated manuscripts. “In this book the figure of Silius Italicus is wearing yellow buskins… [Scipio Africanus] wears a yellow cuirass whose sword-belt and sleeves are azure… the hose are green and quite plain; the chlamys, which is azure, has a red lining and a border of gold. (…) [Hannibal] wears a helmet of yellow colour; the crest is a dragon, the colours of which are yellow and green. (…) The cuirass is azure; the belt, with its pendants, is partly azure and partly yellow; the sleeves are changeable, or shot azure and red; the buskins are yellow. The chlamys (…) is changeable red and yellow: it is fastened on the right shoulder and lined with green; with the left hand he leans on his sword, and is placed within a niche of varicoloured marbles, the colours of which are yellow, white, and changing. (…) [Pope Nicholas V is placed in a niche of] green, white, and red.”

Blessed Angelico “Conversion of Saint Paul” Missal 558, 1420 ca.

 

The “work in regress” approach set by Claudio Costa as early as the 1970s, to which I feel strongly bound, had led me in an exemplary way to the ancient origins of that polychrome heritage that modern and contemporary art draws on, though it escapes many due to superficiality and incompetence; to bring the attention of the reader of Scandura’s work to Renaissance culture, particularly the design element in Florentine painting and miniature, is not just an indication and a cultured reference, but it qualifies the cultural process the author refers to, the conceptual substance of his intervention on the objective reality, on the architectural definition of space and on the importance of the “’actors” who inhabit it. A process that recognises heritage not only for its “ancient” and “historical” value but also for the ways it relates to the contemporary world, of which it becomes part through our perception and fruition.

The Studio

I visited Piero Scandura’s Studio only a few weeks ago, and it allowed me to better acquaint myself with his work. It revealed itself to be an indispensable second step in trying to attune myself with an expressive project that, though perceivable, requires one to experience the work first-hand; here, in the extraordinarily clear light of a day in May, one that can only promise a particularly hot June, the kaleidoscopic dimension of painting, as supported by a preparatory phase made up of notes and sketches, presented me with the actual identity of his work. Here “light”, at its full extent, coming from the nearby Tyrrhenian coast, plays a peculiar and certainly important role in defining of a kind of “landscape” that is constantly fluctuating between inside and outside; “light” describes space, organises the mass of objects through “shadows”, flares the scene with intensity until it “blows away” the theatrical backdrop of the private habitat; the home-studio is alive, and it inspires the artist the unstable threshold between inside and outside by qualifying the chromatic flicker of the painting; whatever its size, painting opens, not unlike Matisse, and unfolds the house walls, highlighting the world of interior architecture, inhabited by monochrome furnishings in a polychrome context: “…1) light blue, almost white, 2) a cool shade of vermilion red that, by proximity, by juxtaposition, has taken the depth, the softness of Venetian red (why then did I not get the Venetian red? Because its effects on neighbouring shades are less intense), 3) the light cobalt violet palette you have seen me use for this purpose, whose intensity you know, 4) pure yellow ochre of smear, 5) skin tones, a rather warm pink cadmium vermilion…” (H. Matisse, from a 1940 document, included in “Scritti e pensieri sull’arte” Einaudi 1979.

To linger in the same rooms paintings and preparatory drawings were born also allows me to start making “choices” and put forward suggestions to make this volume possible and to open ourselves to future exhibition activities; experiencing painting first-hand allows me to become part of it, to appreciate it from within, and to completely live it as a daily reality. 

To linger and behold means to gather precious data, knowing that when the time will come to ponder and draft a critical contribution one will have access to a whole series of tools to process said data; our gaze rests and wonders to dwell upon the large square canvases, thrilled by the all-enveloping void of broad dialectically bright layers of colour, often preferring acidic tensions such as light greens, oranges clashing with fuchsia, yellows with blues, haunted, as in thoughts in the night, by the blueish shadow of a spiderlike chair.

It is thanks to the verification phase in the Studio that, when it comes to drafting this text, I am reminded of another moment in the history of art, and my train of thought leads me from the Renaissance to the lightness of 18th-century French art; I cannot fail to refer to Francois Boucher and particularly Jean-Honoré Fragonard and Claude Gillot with his theatrical spaces, though it may seem a “betrayal” of Tuscan rigour; but the history of art is a living thing, capable of contradicting itself, providing the most unpredictable of suggestions against all arrogant aesthetic assumptions and ideological dicta. 

Francois Boucher “Odalisca” 1745

Jean-Honore Fragonard “The Happy Lovers” 1765 

The “palette”, as it was once said, is one and the same, with the same bright reds and intense blues, and the yellows of the clothes that become the surfaces and floors of a house, while the complexions of the young lovers are of the same pink as the soft forms of modern chaise lounges; but the comparison and the connection, perhaps and most likely unforeseen by Piero Scandura, is attributable to the great freedom of his painting which is able, suddenly overturning the drawing’s rigour, to move freely between floral curtains and shimmering mirrors-fragments.

The volume

Much work will find its place in the monographic volume centred on Piero Scandura, focusing the documentation on his entire expressive process and particularly on the recent body of works marked by the persistent presence of the furniture that constituted the privileged axis of design between the 30s and 50s, from Josef Albers, Marco Zanuso, Marcel Breue, to the technical expertise found in the more advanced big companies. Armchairs, sofas, and chairs are most frequently found in the foreground and in some cases distributed in what is a domestic habitat, but always on intersecting surfaces that overturn all sense of horizontality and verticality. 

I prefer the visual comparison with the scale through which the imposing blue armchair takes on the monumental proportions that allow it to “occupy” the space outside the canvas, so that I can imagine the spatial development of smaller canvases. A series of carefully selected preparatory drawings, enclosed in what is a true independent Collection, reveals all of Scandura’s determination in matters of design, which reaches aesthetic results that confirm the value of his work and put it in fitting relation with that area of figuration that covers the full extent of international contemporary art.

We need not pursue those forms of critical judgment that insist on “detailing” movements and groups of artists, new trends and post-aggregations: we must favour the observation of individual values and aesthetic solutions, the result of linguistic contaminations, the contribution to the kaleidoscopic dimension of the idea of artistic and cultural “heritage”; it is on the basis of this orientation that Piero Scandura’s work affirms itself, with its relationship with tradition, and its dialogue with today’s art that includes different authors but particularly David Hockney’s most recent work, Titina Maselli’s vital dimension, and Valerio Adami’s schematic rigour. We must also consider Umberto Buscioni’s contribution in what was, though didactic in nature, a valuable and authentic experience for Scandura, who studied with him in the 1980s; the Master of Pop Art taught Scandura creative freedom as well as the targeted sense of responsibility he takes on as he works within the cultured heritage of art, – which for Buscioni means revisiting Mannerism and Jacopo Carucci, known as Pontormo — playing a decisive role in the process of the renewal of visual languages. On this basis for reflection, the volume’s task is to document the systematic process of research, the linguistic progress towards new solutions.

Design

Although it is impossible not to speak of a figurative dimension when considering Piero Scadura’s work, we actually find ourselves before the iconographic system of the modern and rationalist culture of design, which comprises its inception and its development and its diffusion that still characterises the housing landscape in larger social groups. These data indicate an expressive elaboration where the analytical processes of “form” are decisive and therefore conceptually oriented beyond any “naturalistic” projection of the image, preferring the symbolic objectivity of the functions being represented — the act of pausing while reading, speaking, and listening, therefore centred around “reflection” and “thought”. 

Each painting, supported by the presence of a multitude of “drawings” and a series of “preparatory studies”, is accompanied by a “photographic” catalogue dedicated to those well-known and widely distributed prototypes of chairs, armchairs, and chaise lounges and sofas, in some cases paired by low tables that “inhabit” what become extremely vibrant living rooms. These tangible presences are donned with a rich series of cinematic references able to “animate the scene”, to enhance the scene’s vitality through joyful carefree pastel colours, while bolder blues and reds impose themselves as matador-actors, flaring and raging, only to make room for the cold blue light of a clear sunrise over the sea, then the warm shadows of an orange sunset, pervaded by purplish fears. 

Scandura “lives” alongside colour, to be understood as light and matter, integrating its presence through the constant search for balance and imbalance, the overturning of planes and the interference of surfaces, so that the different “sessions” involved can never stand still in space, but prefer the vital extension of drawn forms. Once again, the works on paper, precious materials for any refined and competent collecting, are the first to bear witness to Scandura’s research, understood as the seat for linguistic experimentation, between the drafting of volumes — functions — and the dialogue with colour — life — so that the pictorial works can take shape in the canvasses’ widest and largest dimensions.

Piero

In closing these brief reflections, we cannot fail to recognise the hidden “self-portrait” that crosses the entire cycle of works through the insistent presence of chairs and armchairs: the perceivable absence of a body and a face, in the spatial dimensions of “inside” and “outside”, suggesting the everyday life in a certain habitat as expressed through an “other” subject. My impression, which I had declared when leaving Scandura’s House-Studio, is that it is the artist himself who recognises himself in the objects described so far, and through them is able to “recount” those states of mind that run through one’s mind in moments of rest and reflection. 

But if this is the data we attribute to this artist, we will have no difficulty in imagining a visitor of the house and its garden, as well as naming the user of that furniture; it is a simple process of identification that refers to the emotional value of one’s home as well as to its precise aesthetic dimension. On the other hand, the depersonalisation of the object borne to industrial design allows, by dialectical counterpoint, a democratic acquisition by its user, on the basis and on the impulse of a choice of cultural comparison with contemporaneity. This allows us to conclude that every one of Piero’s self-portraits can only be the “portrait” that everyone attributes themselves — but here we enter the sphere of the ego.

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