LiYongzheng
Italiano /Inglese
Nulla ma forse tutto, restando in attesa e in ascolto.
di Andrea B. Del Guercio

” Che cosa penserebbero della nostra epoca i posteri se, da un ipotetico naufragio, ne emergessero soltanto pitture di eredità classica, di placida visione? Che cosa potrebbero capire di questo terribile, oppresso, angosciatissimo dopoguerra? ma le opere di quel vero, inquietissimo barometro storico, che fu Pollock, da quelle, si capirebbero che fu la nostra angoscia, la nostra presenza all’angoscia, la nostra alienazione inevitabile”[1]


Lo Studio.
Lo Studio di Li Yongzheng si apre su ampie vetrate permettendo allo sguardo di spaziare sull’esteso paesaggio urbanistico di Chengdu, perfettamente contrassegnato dalla distribuzione tra natura e architettura; la relazione con l’habitat esterno, seppur vissuto a grande altezza, dove essa si intende osservatorio privilegiato, permette di rintracciare nelle opere, disseminate nello spazio interno, l’azione di una creatività riflessiva, orientata a rielaborare ciò che è materia del ‘vissuto’, per poi tornare ad intervenire propositivamente nella dimensione sociale. L’estensione del principio di libertà espressiva permette all’artista di fare pieno ed articolato uso di ciò che ritiene utile in quel momento affrontare e trascrivere, attraversare e interpretare; una condizione di indipendenza da eredità imposte e superate, che si arricchisce attraverso il valore di quella responsabilità, culturale e morale, che gli appartiene e che contrassegna l’intero suo percorso espressivo, le sue diverse stazioni tematiche, affrontate senza dipendere da un’unica direzione estetica e linguistica: “I am not the kind of person who purssues the same thema. I am always attracted by something new. Curiosity can ease my anxiety and fear abaut the future.”[2]
Quattro distinte ‘stazioni’ contrassegnano l’attraversamento dello spazio laboratoriale:
- Una prima area di deposito e stoccaggio, dove si accumulano oggetti e materiali direttamente e indirettamente coinvolti nella sceneggiatura dell’arte, così che accanto ad alcune opere pittoriche si riconosce la presenza frammentata di supporti alla dimensione scultorea.
La documentazione fotografica segnala perfettamente come questo ambiente svolga un ruolo di raccolta di diverse componenti utili e utilizzate, facenti parti dei processi espressivi e dei sistemi linguistici intorno ai quali ruota l’attenzione operativa dell’artista. Osservare l’accatastamento di vecchi tappeti [3]e manichini-robot per il controllo del traffico[4], bossoli militari[5] accanto a quadri di diversa misura e mattoni di alabastro rosa[6], segnala che raccogliere tracce tangibili della realtà e rivisitarne la dimensione simbolica, producendone attraverso ‘sottolineature’ la rigenerazione estetica, predispone alla nascita del patrimonio artistico di Yongzheng.
Informazioni che ebbi modo di cogliere accedendo al suo Studio nell’estate del 2023, verificando come questo spazio di immagazzinamento svolge tutt’ora una funzione sia di conferma di quanto avevo osservato nell’esposizione antologica del 2022 all’Osthaus Museum di Haghen (D), ma anche introduttiva a quegli sviluppi espressivi che hanno condotto alla redazione di queste riflessioni monografiche.
- Un secondo ambiente è posto in continuità, contrassegnato da un pesante tavolo da lavoro in legno, dedicato allo studio e la comunicazione, alla ricerca, allo sviluppo delle idee e all’elaborazione progettuale nella sfera dell’editoria d’arte e dell’attività espositiva.
- Fa seguito un tratto ospitale direttamente ‘aperto’ sulla prospettiva esterna dell’edificio, qualificandosi luogo di accoglienza e di riflessione, sottolineata dalla presenza – piccoli quadri e disegni, manifesti e impianto di ascolto dei vecchi dischi in vinile, piccole sculture con l’occorrente per il caffè all’italiana – di una frammentazione del pensiero visivo, appunti e tracce della frequentazione amichevole. Nella conversazione lo sguardo non può negarsi alla città di Chengdu, capitale della Provincia Sichuan con venti milioni di abitanti, in cui si ‘proietta’, e si allarga verso altri e più ampi confini, sapendo come Yongzheng sia un attento osservatore delle dinamiche sociali che in essa si dibattono.
- Ed in fine il luogo dell’attività pittorico dove stazionano tele di diverse misure, ‘ancora’ alcuni cavalletti ed un tavolo di supporto alla scelta del colore e all’azione di numerosi pennelli. Qui è il pavimento a raccontare attraverso la stratificazione delle materie cromatiche, la funzione creativa dello spazio laboratoriale. Qui lo sguardo si fa indagatore attento e lettore di un caleidoscopio di immagini rotanti, decisamente instabili in quanto frutto della cancellazione dell’organizzazione prospettica, suggerendo una indipendente e vitale realtà policroma, risultato di quella rielaborazione tratta da diversi apparati iconografici e della loro contaminazione.
Ritengo, facendo leva sulla mia personale esperienza ma anche in stretta relazione con il processo storico dedicato allo studio e alla conoscenza dell’arte, che per entrare in sintonia con un artista, ricordando quanto esso sia sempre contrassegnato da una dimensione intellettuale, e con la sua opera, sia utile e prezioso, tentare, quando possibile, affrontare e interagire con il suo habitat; la frequentazione diretta, ma anche la stessa documentazione fotografica, del luogo in cui la vita e l’azione espressiva scorrono e si manifestano, l’osservazione dei dati che in esso si raccolgono e si accumulano, divaricano l’ampiezza critica dell’osservazione e la padronanza della percezione.
Lo Studio di un artista rappresenta nella maggioranza dei casi, lo ‘specchio’ del pensiero e dell’azione, le geografie culturali di riferimento su cui l’opera d’arte si basa e si sviluppa nel progredire dei linguaggi e nella definizione delle tecniche. Una ricca letteratura attraversa la storia del patrimonio artistico contrassegnata dalla frequentazione degli ambienti vissuti dagli artisti e dei luoghi laboratoriali in cui sono nate le opere; una serie di testimonianze che ci hanno fornito quella ‘diretta’ in cui tutto avveniva, soffermando lo sguardo su quei particolari, anche all’inizio irrilevanti, che poi risulteranno decisivi nell’attribuzione di significato di una scelta espressiva.
Esemplari nella loro dimensione poetica e utili alla nostra analisi appaiono le parole che Marcel Proust attribuisce alla Casa-Studio nell’ottobre del 1898, a pochi mesi dalla sua scomparsa dell’artista: “La maison de Gustave Moreau maintenant qu’il est mort va devenir un musée. C’est ce qui doit etre. Déjà, de son vivant, la maison d’un poète n’est pas tout à fait une maison. On sent que, pour une part, ce qui s’y fait ne lui appartient déjà plus, est déjà à tous , et que sovent elle n’est pas la maison d’un homme, souvent c’est-à-dire toutes les fois où il n’est plous que son ame la plous intérieure. Elle est comme les ponts idéaux du globe,comme l’équateur,comme les poles , le lieu de rencontre de courants mystérieux”.[7]


Aree desertiche.
In aperta contrapposizione con la natura policroma della pittura, in cui la presenza vitale dei frammenti trascritti dalla realtà prevalgono, si agitano ed animano, l’azione performativa video documenta la previlegiata ’immersione’ in aree desertiche, attraversamenti di canyon privi di vita, il percorrere luoghi inospitali.
L’insistente attenzione espressiva verso aree geografiche di ‘confine’, interne all’immenso paese, prive di ogni segno di antropizzazione, e con esso l’approfondimento di problematiche a queste collegate e l’elaborazione di soluzioni iconografiche, ci suggerisce già in questa prima fase, il riconoscimento di una volontà di ‘fuga’, di abbandono di realtà protette e sicure, caratterizzate dall’aggregazione sociale, dalla frequentazione esasperata delle relazioni umane.
Avvertiamo, anche e sulla base di quella costante e storica volontà di abbandono di geografie protette, quasi una reazione che conduce alla vuota estensione dei territori per chi trascorre e partecipa, anche con la pittura, alla compulsiva frequentazione delle metropoli; quasi un’esigenza estetica tesa al raggiungimento della dimensione monocroma per colui che si interfaccia con il poli-cromatismo della comunicazione sociale, quasi un desiderio di disintossicazione iconografica suggerita dal deserto rispetto all’impressionate sistema della comunicazione contemporanea. Bisogna ulteriormente osservare e sottolineare quanto questa esigenza espressiva proiettata verso il ‘viaggio di scoperta’, di cui Yongzheng estrapola un racconto intensamente partecipato, sia strettamente collegato con quella stessa energia che sta alla base operativa e determina la sua cultura pittorica articolata per Cicli.
E’ utile sottolineare e collocare la linea di tendenza che conduce Yongzheng, abbandonata la grande tradizione cinese della pittura di paesaggio, verso mirate esperienze performative in ambito geografico, nel quadro di una cultura del viaggio come dimensione della ricerca e delle relazioni diverse, frutto di una volontà attenta alla tematizzazione della propria opera quale risultato inedito nato del confronto tra l’io artistico e il contesto sconosciuto; alcuni fotogrammi estrapolati dalla documentazione e direttamente riconosciuti nelle video-registrazione di azioni e installazioni poli-materiche conducono ad un processo di sovrapposizione e di successione storica, sin dalle origini archeologiche per poi definirsi e specificarsi nella stagione moderna e poi in quella contemporanea, di tante tappe fondamentali per la definizione del patrimonio della storia dell’arte.



Se la condizione del ‘viaggio’, dall’abbandono delle certezze alla scoperta del nuovo, è testimonianza vitale della cultura e della scienza, il patrimonio iconografico dettaglia con precisione le infinite soluzioni e i diversi contenuti. In questa sede è utile sottolineare e porre al centro di quella che potrebbe essere osservata come una ‘svolta’ verso la dimensione moderna dell’arte, l’opera “Bon jour monsieur Courbet” del 1854[8] dove per la prima volta ed in termini di decisa affermazione della personalità dell’autore, la figura dell’artista si presenta perfettamente contrassegnata – dal cavalletto da esterno, al bastone fino alle ghette da viaggio, ed in aperto contrapposizione con gli stivali e il bastone leggero da passeggio di un fin troppo ‘reverente’ Alfred Bruyas (1821-1877), amico e collezionista di Gustave Courbet – dalla volontà di condurre all’esterno dello Studio la ricerca e la documentazione, proiettando verso la scoperta e la trascrizione del nuovo che si incontra, frutto sottolineato del camminare lungo nuove strade, dell’attraversare territori, dell’entrare in relazione …. un ‘quadro’ fondamentale nella proiezione e nello sviluppo dei ruoli e delle sensibilità che conduce ad una nuova figura d’artista: “La storia di un’epoca finisce con l’epoca stessa e con quanti dei suoi rappresentanti l’hanno espressa…Non bisogna mai ricominciare, ma procedere di sintesi in sintesi, di conclusione in conclusione. I veri artisti sono quelli che riprendono un’epoca giusto al punto in cui essa era stata condotta dai tempi precedenti. Andare indietro, è come non fare nulla, è agire in pura perdita: vuol dire non aver né compreso, né messo a profitto l’insegnamento del passato…”. (G.Courbet Parigi,25 dicembre 1861)[9]
Un quadro con valore di ‘manifesto’ per gran parte degli sviluppi successivi, esemplarmente testimoniato, a poca distanza di tempo, dalle ‘fughe polinesiane’ di Paul Gauguin (1848-1903), poi articolatosi lungo il XX secolo con approfondimenti e interventi specifici – da Joseph Beuys (1921-1989) a Alighiero Boetti (1940-1994), da Claudio Costa (1942-1995) ad Antonio Paradiso (1936) a Richard Long (1945) a Hidetoshi Nagasawa(1969-2018) – lungo l’articolata stagione delle ‘seconde avanguardie’; un patrimonio estetico-esperienziale che si qualifica all’interno degli attuali processi espressivi con soluzioni metodologiche esemplari dal significativo valore etico.
Ogni produzione video corrisponde, come ogni singolo mattoncino di alabastro e nella successione dei dipinti, ad un tassello della storia raccontata da Li Yongzheng, allo scorrere delle pagine di un racconto, alle tappe di questo viaggio condotto con coraggio dentro se stesso, per rispondere alle domande che comunque si pone e ci pone e da cui hai l’onesta di non voler sfuggire.
“Bon jour Monsier Courbet” Joseph Beyus (1921-1986)
Richard Long (1945) Li Yongzheng
La linea retta.
Lungo il percorso di avvicinamento al progetto espressivo di Li Yongzheng, dobbiamo prevedere di soffermare l’analisi critica su un ulteriore passaggio espressivo frutto di questo indirizzo geografico-ambientale in netta ‘indipendenza’ con i caratteri del tutto specifici dei ‘testi pittorici’.
La costante presenza del valore linguistico della ‘linea retta’, risulta centrale e persistente al punto da limitare la dimensione prospettica, corrisponde al frutto evidente dei caratteri paesaggistici integri in aree desertiche, prive di contaminazioni aggiunte, dalla natura stessa come dall’uomo, ed è accolta nel processo espressivo, diventando prioritaria nella ricerca e nella definizione di uno spazio scenico. L’estensione di quel confine che determina l’alto e il basso, la dimensione fisica del pianeta rispetto a quella atmosferica della volta celeste, contrassegna lo sguardo cinematografico e predispone all’installazione di reperti plastici, i mattoncini di alabastro come il tavolo bianco dell’Ultima cena’, fornendo al fruitore l’architettura teatrale dell’immagine e la loro successione spettacolare degli eventi e della comunicazione umana.
Una ‘linea retta’, quale strumentale trascrizione del paesaggio e funzione d’uso della comunicazione cinematografica e dell’installazione, subito in grado di scompaginare, lungo il percorso espositivo del Museo e nello scorrere delle pagine della Monografia, la nostra fruizione difronte al vortice iconografico che agita costantemente ogni opera-pittorica, che monopolizza l’esperienza policroma di Yongzheng, l’instabilità di una figurazione, che si articola tra le conflittuali accensioni tra il chiaro e l’oscuro, tra il davanti e il dietro – “Jump” del 2021 – “Hope” (del 2020) – “Historical Literature” (del 2021) – ‘Banquet 1” (del 2021), tra soggetti che ora avanzano, ora si soffermano, poi in fuga…per tornare all’azione performativa presente in ogni opera-video, così che assistiamo allo sdoppiamento tra l’area rarefatta del pianeta e le creazioni del pensiero visivo.
In cammino.
Mettersi in cammino, abbandonare il proprio habitat per entrare in un territorio poco conosciuto, rappresentativo di storie antiche e di problematiche del presente, confrontare la propria condizione personale con le tracce lasciate da altri percorsi, vivere in relazione con quanto si incontra, sottoporsi al respiro della terra ed alle sue gradazioni di luce e di temperatura, vivere nel silenzio ed essere testimone nel 2019 al ritorno dal territorio dello Xinjiang con – “Border Post” – dell’instabilità dei ‘confini’ che un pilastro e del filo spinato emblematizzano, della loro inequivocabile ‘invalidità’ difronte al corso del tempo, al movimento del vento e alla stessa mobilità di ogni razza animale … sono tutti frammenti che attraversano le diverse e distinte ‘stazioni’ di quel percorso espressivo condotto da Yongzheng in questi anni, anni difficili per la storia del pianeta e per le nostre popolazioni.
Un procedere fisico esperienziale che assume valore estetico sia nella dimensione concettuale che in quella plastica, perfettamente suggerita nell’installazione “Territory” del 2021 frutto della relazione tra lo scorrere del paesaggio-immagini e l’incedere del corpo-scultura.
“Ultima cena”.
Non può non collegarsi al patrimonio iconografico dell’Ultima cena’ il sofferto video “Feast” girato nel 2020 in cui vita e morte, amicizia e tragedia si confrontano nel paesaggio brullo e sassoso, esasperatamente monocromo, dello Xinjiang, frutto dell’incontro, intensamente cercato con volontà di scoperta e di confronto da Yongzheng, con esponenti della comunità turcofona degli Uigura e consolidata attraverso un sacrificio ‘antico’ e in un banchetto di condivisione. Anche in questo caso tutto è frutto di un ‘viaggio’ di ricerca, di un percorso in cui la dimensione fisica dello sforzo non può non essere intesa quale fonte di decontaminazione e di purificazione personale; un processo di avvicinamento geografico dettato dalla necessità di giungere ‘diverso’ prima di poter essere al cospetto di un patrimonio socio-culturale antico, trattenuto in isolamento, comunque preservato e sicuramente importante. Ogni fotogramma e lo scorrere delle immagini, ma anche la rivisitazione pittorica dell’uomo che avanza e del suo stare nel ‘sacrificio’ – “Banquet 1 e 2” del 2021 -, trascrivono il valore di questo incontro, raccontando al nostro sguardo valori che geografie sociali a noi lontane esprimono rendendoci partecipe di un’esperienza estetico-antropologica costruita sulla dimensione etica… il fuoco che avvolge quell’Ultima cena’ illumina la notte, sancisce il valore complesso di quell’incontro, apre un varco con i suoi bagliori nella inattraversabile successione di troppi confini.
Nulla ma forse tutto, restando in attesa e in ascolto.


L’azione espressiva di Yongzheng tende a qualificarsi attraverso la ricerca e il confronto con il nulla che l’estensione geografica consegna per poi registrare nella successione delle immagini l’intera sostanza presente nel nulla, per scoprire come al vuoto in realtà corrisponda un’immensa ricchezza.
Di quella vecchia caserma appartenuta ad un aeroporto ormai abbandonato, trascrive plasticamente e visualizza cinematograficamente nel 2015 – “Defender Our Nation” – la dimensione effimera di quei valori su cui si ergeva impavida contro un nemico apparente, di cui non si avverte traccia.
Un clima estetico dettato dalla consonanza di non-luogo, della luce che lo contrassegna che riconosco e collego, superando confini di tempo e di luogo, alla dimensione ‘metafisica’, spiazzante ed esasperante, nelle pagine di Dino Buzzati: “E’ una frontiera morta” rispose Ortiz. “Così non l’hanno mai cambiata, è sempre rimasta come un secolo fa”. “Come: frontiera morta?”. “Una frontiera che non dà pensiero. Davanti c’è un grande deserto”. “Un deserto?”. “Un deserto effettivamente, pietre e terra secca, lo chiamano il deserto dei Tartari”. Drago domandò: “Perché dei Tartari? C’erano i Tartari?”. “Anticamente, credo. Ma più che altro una leggenda. Nessuno deve essere passato di là, neppure nelle guerre passate”. “Così la Fortezza non è mai servita a niente?”. “A niente”. Disse il capitano…”[10]
Mentre l’altro mio ‘sguardo’, quello della memoria culturale, attraversa le pagine letterarie di Buzzati e partecipa alla trasposizione per immagini cinematografiche di Valerio Zurlini, l’attenzione visiva si relaziona, nell’immediatezza del percorso museale, all’intensità espressiva che caratterizza l’incontro tra i due militari nel dipinto “Historical Literature” del 2021.
Quattro quadri.
Sono quattro i quadri che scandiscono il percorso espositivo predisposto da Yangzheng per il MART a cui questa edizione si collega, interrompendo e obbligando ad una diversa fruizione rispetto allo scorrere delle immagini video, tra i monitor che inducono alla lettura e le proiezioni che accentuano la dimensione spettacolare dei territori, attraversati con insistenza dall’artista, della Cina più interna.
I quattro dipinti, collegati tematicamente con la produzione video, si impongono sulla fruizione attraverso una intensa carica espressiva, travalico il rigore imposto dal paesaggio attraverso quegli strumenti linguistici riconducibili all’attuale stagione della “figurazione” internazionale, qualificata, in questo caso, nell’accezione che torniamo a definire “critica”, fondata cioè sulla dimensione problematica delle nostre società, in rapporto con la complessità delle relazioni tra eredità e progresso, tra sviluppo e conservazione: “… non nascondono il loro punto di vista su questioni sociali e politiche…approccio che si può definire più esplicito e concreto, anche se l’arte che ne deriva è utilizzata solo come mezzo per esprimere in maniera più efficace possibile il messaggio dell’artista, con l’obiettivo di rivelare problemi e renderli accessibili a chi sia disposto a riflettere.”.[12] Queste utili indicazioni di Lv Peng segnalano quanto Li Yangzheng abbia acquisito una completa indipendenza espressiva rispetto al patrimonio tradizionale cinese e alla sua ricchezza di valori estetici senza per questo abbandonare, grazie ad una cultura linguistica internazionale, la storia del paese, la dimensione sociale attraverso l’intensità dei suoi paesaggi più estremi ed autentici.
Quattro grandi quadri sofferti e mai delicati, per quattro superfici di colore denso ed esteso, condotto al limite di una fisicità magmatica, portato all’interno della struttura di un ‘disegno’, come sottolineatura espressionista, velocemente tratteggiato da un gesto rapido del pennello, in equilibrio conflittuale tra le severità dei blu, dei verdi e dei neri, tra improvvisi bagliori dei bianchi, la sorpresa dei gialli e le accensioni appassionate del rosso: “Il est évident que les couleurs utilisées à l’état pur ou teintes en blanc offrent bien plus que des sensations rétiniennes, elles bénéficient de la richesse du cerveau de celui qui leur donne vie.”[13]
Li Yongzheng. Nothing but perhaps everything, waiting and listening
Andrea B. Del Guercio
What would future generations think of our era if, from a hypothetical shipwreck, only paintings of classical heritage depicting peaceful scenes were to emerge? What could they understand about this terrible, oppressed, distressed post-war period? Yet, from the creations of Pollock, that authentic, most unsettled historical barometer, it would be understood that it was our anguish, our confrontation with anguish, our unavoidable alienation[14].
The studio
Li Yongzheng’s studio has large windows that allow the eye to wander across Chengdu’s wide urban landscape, distinctively marked by the interplay between nature and architecture. Even seen from high above, where it serves as a unique lookout, the connection with the external environment enables the works scattered throughout the interior space to reveal a reflective creativity aimed at reimagining “lived experience”, ultimately to proactively re-engage with the social sphere. The extension of the principle of expressive freedom enables the artist to fully and intricately use whatever they deem necessary at the time to tackle and document, navigate and interpret; a condition of independence from inherited and outgrown legacies, which is enhanced by the value of cultural and moral responsibility that is inherently theirs and characterises their entire creative journey, their diverse thematic explorations, approached without dependence on a single aesthetic or linguistic path: “I am not the kind of person who pursues the same theme. I am always attracted by something new. Curiosity can ease my anxiety and fear about the future”[15].
Four distinct “stations” mark the crossing of the workshop space:
- An initial deposit and storage area, where objects and materials directly and indirectly connected to the narrative of art are gathered so that, alongside certain paintings, the fragmented presence of supports for the sculptural aspect can be discerned.
The photographic documentation perfectly highlights how this environment acts as a collection point for various useful and utilised components that are part of the expressive processes and linguistic systems around which the artist’s operational focus revolves. The pile of old carpets[16] and robot mannequins[17] for controlling traffic, military shells[18] next to paintings of various sizes, and pink alabaster bricks[19] are confirmation that gathering tangible traces of reality and revisiting their symbolic dimension, producing aesthetic regeneration through “emphases”, heralds the creation of Yongzheng’s artistic heritage.
These are insights I gathered on visiting his studio in the summer of 2023, when I was able to confirm that this storage space remains a testament to what I observed at the 2022 retrospective exhibition at the Osthaus Museum in Hagen, Germany, and serves as an introduction to the expressive developments that led to the writing of these monographic reflections.
- A second adjoining space, marked by a heavy wooden worktable, is dedicated to study and communication, research, the development of ideas, and project planning in the realm of art publishing and exhibition activities.
- Next is a welcoming area that opens directly onto the external prospect of the building, a space of reception and reflection, accentuated by the presence – small paintings and drawings, posters, equipment for playing old vinyl records, and small sculptures equipped with the essentials for making Italian coffee – of a fragmentation of visual thought, notes, and signs of friendly interaction. During the conversation, the gaze cannot escape Chengdu, the capital city of Sichuan Province with twenty million inhabitants, into which it is “projected” and expands towards other, broader boundaries, aware that Yongzheng is a keen observer of the social dynamics debated within.
- Finally, the painting room, where canvases of various sizes are placed, along with more easels and a table to assist in choosing colours and the action of numerous brushes. In this room, the floor tells of the creative function of the workshop space with the layering of chromatic materials. Here, the gaze carefully probes and reads a kaleidoscope of spinning images, decidedly unstable since they are the result of the erasure of perspective order. This suggests an independent and lively polychromatic reality, the outcome of the reworking of various iconographic systems and their contamination.
I believe, drawing on my personal experience yet closely related to the historical process dedicated to the study and knowledge of art, that in order to truly resonate with an artist – considering their inherent intellectual dimension – and their work, it is useful and valuable to try to engage with their environment. Direct engagement, including photographic documentation of the place where life and expressive action flow and are manifest, along with the observation of the data collected and accumulated there, broadens the critical scope of observation and enhances the mastery of perception.
An artist’s studio is often the “mirror” of thought and action, the cultural landscape in which the artwork is grounded and develops through evolving languages and the honing of techniques. A rich body of literature covers the history of artistic heritage, marked by frequenting spaces inhabited by artists and the workshops where the art was created; a body of evidence that provides us with “live coverage” of events as they happened, pausing to look at those initially irrelevant details that would later prove decisive in attributing meaning to an expressive choice.
Exemplary in their poetic dimension and apposite for our analysis are the words that Marcel Proust attributes to Gustave Moreau’s House-Studio in October 1898, a few months after the artist’s death: “The maison de Gustave Moreau maintenant qu’il est mort became a musée. C’est ce qui doit être. Déjà, de son vivant, la maison d’un poète n’est pas tout à fait une maison. On sent que, pour une part, ce qui s’y fait ne lui appartient déjà plus, est déjà à tous, et que souvent elle n’est pas la maison d’un homme, souvent c’est-à-dire toutes les fois où il n’est plus que son âme la plus intérieure. Elle est comme les points idéaux du globe, comme l’équateur, comme les pôles, le lieu de rencontre de courants mystérieux”[20].
Desert areas
In stark contrast to the polychromatic nature of painting, in which the vital presence of fragments transcribed from reality prevails, agitates and animates, the video performance documents the privileged “immersion” in desert regions, traversing lifeless canyons and walking in inhospitable places.
The persistent expressive attention towards geographical “border” areas within this immense country, free of any sign of human influence, along with the investigation into the issues connected to these areas and the creation of iconographic solutions, suggests, even at this early stage, a recognition of a desire to “escape”, to leave behind protected and safe realities characterised by social aggregation and the intensive interaction of human relationships.
We perceive, based on this constant and historical desire to leave behind protected geographies, almost a reaction that leads to the hollow expansion of territories for those who experience and participate, including through painting, in the compulsive visitation of metropolises. It is almost an aesthetic necessity aimed at achieving a monochrome dimension for those who interact with the polychromatism of social communication, almost a desire for iconographic detoxification suggested by the desert in contrast to the overwhelming system of contemporary communication. It is important to observe further and emphasise how this expressive need, projected towards a “voyage of discovery”, from which Yongzheng extrapolates an intensely engaging narrative, is closely linked with the very energy that forms the operational basis and determines his pictorial culture divided into cycles.
It is useful to underline and place in context the tendency that guides Yongzheng, after abandoning the grand Chinese tradition of landscape painting, towards specific performative experiences in the geographical domain, within the framework of a travel culture as a dimension of research and diverse relationships. This is the result of a deliberate thematization of his work as a novel outcome, born out of the dialogue between the artistic self and the unknown context; some frames gleaned from the documentation and directly identified in the video recordings of poly-material actions and installations lead to a process of overlay and historical succession, from the archaeological origins, before being defined and specified in the modern and then the contemporary era, encompassing many critical stages for defining the heritage of art history.
If the notion of “journey”, from the abandonment of certainties to the discovery of the new, is vital evidence of culture and science, the iconographic heritage precisely details the infinite solutions and the various contents. Here, it is useful to emphasise and place at the centre of what could be observed as a “turn” towards the modern dimension of art, the work Bonjour Monsieur Courbet (fig. 1) of 1854[21], where, for the first time and in terms of a decisive affirmation of the author’s personality, the figure of the artist is perfectly characterised – from the outdoor easel to the cane and the travel gaiters, in open contrast with the boots and the light walking stick of an all too “reverent” Alfred Bruyas (1821-1877), friend and collector of Gustave Courbet – by the desire to conduct research and documentation outside the studio, aimed at the discovery and transcription of the new, as encountered, the outcome of walking along new roads, crossing territories, and entering into relationships. A fundamental framework in the projection and development of roles and sensibilities that leads to a new figure of artist: “The history of an era ends with the era itself and with those of its representatives who expressed it […]. One must never start again, but proceed from synthesis to synthesis, from conclusion to conclusion. The true artists are those who capture an era exactly at the point to which it has been brought by previous times. Going backwards is like doing nothing; it is acting in pure futility: it means neither having understood nor having profited from the lessons of the past” (G. Courbet, Paris, 25 December 1861)[22].
Each video production, much like each individual alabaster brick and the succession of paintings, corresponds to a piece of the story narrated by Li Yongzheng, akin to the turning of pages of a story, reflecting the stages of this courageous journey within himself, aiming to answer the questions he poses to himself and to us, from which he genuinely does not wish to escape.
The straight line
As we approach Li Yongzheng’s expressive project, we must focus our critical analysis on an additional expressive step resulting from this geographical-environmental direction that displays a clear “independence” from the entirely specific characters of the “pictorial texts”.
The unyielding presence of the linguistic value assigned to the “straight line” remains central and persistent, limiting the scope of perspective. This mirrors the evident impact of undisturbed landscapes in desert regions, untouched by both natural and human contamination, and is integrated into the creative process, taking precedence in the quest to define and explore a scenic space. The extension of that boundary, which defines the high and the low, and the physical size of the planet in comparison to the atmospheric one of the celestial vault, marks the cinematic gaze and opens the way for the installation of plastic artefacts. The alabaster bricks resemble the white table of the Last Supper, providing the user with the theatrical architecture of the image and their spectacular succession of events and human communication.
A “straight line”, as an instrumental transcription of the landscape and a function of cinematic communication and of the installation, instantly disrupts our experience along the Museum’s exhibition tour and the flow of the pages of the monograph, our appreciation before the iconographic vortex that constantly agitates each pictorial work, monopolising the polychrome experience of Yongzheng, the instability of a figuration which is articulated between conflicting contrasts of light and dark, front and back – Jump, 2021 (cat. 11), Hope, 2020 (cat. 10), Historical Literature, 2021 (cat. 15), Banquet 1, 2021 (cat. 5) – among subjects who now advance, now stop, then flee, only to return to the performative action present in each video work, enabling us to witness the divide between the rarefied area of the planet and the creations of visual thought.
On the move
Setting out on the road, leaving his habitat to enter a little-known territory, representative of ancient stories and present-day problems, comparing his personal condition with the traces left by other paths, living in relation to what is encountered, yielding to the breath of the earth and its variations in light and temperature, dwelling in silence and being a witness in 2019, on returning from the territory of Xinjiang with Border Post (cat. 2), to the instability of the borders that a pillar and barbed wire embody and their unequivocal invalidity in the face of the passage of time, the movement of the wind, and the inherent mobility of every animal species. These are all fragments that pass through the various and distinct “stations” of that expressive journey conducted by Yongzheng over these challenging years for the history of the planet and for our populations.
A physical, experiential process that holds aesthetic value both in its conceptual dimension and in its sculptural one, perfectly suggested in the 2021 installation Territory, arising from the interaction between the flowing landscape images and the progress of body sculpture.
Last supper
Linking the video entitled Feast (cat. 4), shot in 2020, with the iconographic legacy of the Last Supper is inevitable. In this work, life and death, friendship and tragedy converge in the barren, rocky and extremely monochrome landscape of Xinjiang. Yongzheng ardently sought this engagement with the Uyghur Turkic-speaking community members, aimed at discovery and dialogue, culminating in an “ancient” sacrifice and a communal banquet. Also in this case also, everything stems from a “journey” of exploration, a route where physical exertion undoubtedly must be understood as a means of decontamination and personal purification; a geographical progression driven by the need to arrive “transformed” before being in the presence of an ancient socio-cultural heritage, kept in seclusion, yet preserved and certainly significant. Each frame and the flow of images, but also the pictorial reinterpretation of the man who advances and his presence in the “sacrifice” – Banquet 1 and Banquet 2 of 2021 (catt. 5, 6) – convey the value of this encounter, depicting the values expressed by distant social geographies, making us participants in an aesthetic-anthropological experience constructed on an ethical dimension. The fire that envelops that last supper illuminates the night, enshrines the complex value of that encounter, and opens a passage through its flashes in the impassable succession of too many borders.
Nothing but perhaps everything, waiting and listening
Yongzheng’s expressive action seeks to define itself through research and comparison with the nothingness that the geographic vastness delivers, before recording in the sequence of images the entire substance present in this void, revealing how this emptiness actually corresponds to an immense richness.
In 2015, the work Defend Our Nation captured both visually and in sculptural form the fleeting core of values on which a dilapidated old barracks, once part of a deserted airport, stood fearlessly against an apparent enemy that left no trace.
An aesthetic climate dictated by the consonance of a non-place, of the light that marks it, which I recognise and connect with, transcending boundaries of time and place to the “metaphysical” dimension – unsettling and exasperating – as in the pages of Dino Buzzati:
“It’s a dead border,” Ortiz replied. “So they never changed it; it has always remained as it was a century ago”. “What: dead border?”. “A border that causes no worry. There is a great desert ahead.” “A desert?” “A desert indeed: stones and dry land; they call it the Tartar Steppe”. Drago asked: “Why Tartars? Were there Tartars?” “In ancient times, I believe. But more than anything a legend. No one must have passed that way, not even in past wars”. “So, the Fortress has never been of any use?”. “Of no use at all”. said the captain…”[23].
As my other “gaze”, that of cultural memory, traverses the literary pages of Buzzati and takes part in Valerio Zurlini’s transposition of cinematic images (figs. 2-3), the visual attention is engaged in the immediacy of the museum tour with the expressive intensity that characterises the meeting between the two soldiers in the painting Historical Literature (cat. 15) from 2021.
Five paintings
The exhibition tour, curated by Li Yongzheng for the Mart, to which this edition is connected, is interspersed with five paintings, that disrupt and force a different experience from the flow of video images, placed between monitors that encourage viewing and projections that enhance the spectacular dimension of the territories continously traversed by the artist in the deeper regions of China.
Four paintings, thematically connected to the video production, assert themselves during the experience through their intense expressive power. They transcend the constraints imposed by the landscape through those linguistic tools associated with the current season of international “figuration”, which is described here as “critical”. This is based on the problematic dimension of our societies, in relation to the complexity of the relationships between heritage and progress, and between development and conservation: “They do not hide their standpoint on social and political issues […] an approach that can be defined as more explicit and concrete, even if the resulting art is used solely as a means to express the artist’s message as effectively as possible, with the aim of revealing issues and making them accessible to those who are willing to reflect”[24] These valuable insights from Lü Peng show how Li Yongzheng has achieved complete expressive independence from the traditional Chinese heritage and its wealth of aesthetic values, without abandoning the country’s history, thanks to an international linguistic culture and the social dimension through the intensity of its most extreme and authentic landscapes.
Five large, tormented and never delicate paintings feature five surfaces of dense and expansive colour, taken to the limit of a magmatic physicality, brought within the structure of a “drawing” as an expressionist underlining, swiftly sketched with rapid brushstrokes, in a conflicting balance between the severities of the blues, greens, and blacks alongside sudden flashes of whites, the surprise of yellows, and the passionate bursts of red: “Il est évident que les couleurs utilisées à l’état pur ou teintes de blanc offrent bien plus que des sensations rétiniennes, elles bénéficient de la richesse du cerveau de celui qui leur donne vie”[25].
[1] F.Arcangeli “Jackson Pollock”in L’Europeo 30.12.1956 (Dal romanticismo all’informale II volume Einaudi To, 1977
[2] L.Yongzheng “Non sono il tipo di persona che persegue lo stesso tema. Sono sempre attratto da qualcosa di nuovo. La curiosità può alleviare la mia ansia e la paura riguardo al futuro.” Pag 253 7 April 2021 in “Yes, today” Edizioni Rizzoli New York 2021
[3] “Xinjian Carpet. A Family from Ding’er” Installation september 2020
[4] “Hi” Interactive installation artwork september 2015 to february 2017
[5] “Gift” Interactive installation artwork february 2017
[6] “Different Kinds of Willpower” / “Different Will 2”, Installation March 2021
[7] M.Proust Trois notes sur le ‘pays mysterieux de Gustave Moreau” Rumeur des Ages Editeur 2008“La casa di Gustave Moreau ora che è morto sta per diventare un Museo. E’ ciò che deve avvenire. Già nel tempo che era vivo, la casa di un poeta non è a tutti gli effetti un’abitazione. Sentiamo, per un verso, che quanto si sta facendo non gli appartenga ormai più e che spesso essa non è la casa di un uomo, spesso vuol dire tutte le volte in cui non rimane che la sua anima più intima. Essa è simile ad uno dei punti ideali del globo, come l’equatore, come i poli, il luogo di incontro di correnti misteriose”. (traduz A.B.Del Guercio).
[8] Musée Fabre Montpellier (F)
[9] G.Courbet “Il Realismo. Lettere e scritti” pag 35 Universale Economica Milano 1954
[10] D.Buzzati Il deserto dei Tartari 1940 Rizzoli
[11] V.Zurlini “Il deserto dei Tartari” 1976 Cinema Due
[12] Lu Peng “Storia dell’Arte cinese del XX e del XXI secolo” Rizzoli 2023 a Pag 801
[13] H.Matisse “ E’ evidente che i colori usati allo stato puro o graduati col bianco, offrono ben più che sensazioni retiniche, traggono profitto dalla ricchezza del cervello di chi dà loro vita” pag 160 in “Scritti e pensieri sull’arte. Einaudi 1972
[14] F. Arcangeli, Jackson Pollock, in “L ‘Europeo”, 30 December 1956. Republished in F. Arcangeli, Dal Romanticismo all’Informale, vol. II, Einaudi, Turin 1977.
[15] Yes, Today. Art as life practice, edited by Li Yongzheng, Rizzoli, New York 2021, p. 253.
[16] Xinjian Carpet. A Family from Ding’er, 2020, installation.
[17] Hi, 2015-2017, interactive installation.
[18] Gift, 2017, interactive installation.
[19] Different Kinds of Willpower / Different Will 2, 2021, installation.
[20] “Now that Gustave Moreau has died, his house is about to be transformed into a museum. It is inevitable. Even when he was alive, a poet’s residence was not, in the truest sense, a dwelling. In one respect, we sense that what is being undertaken no longer belongs to him, and that it is often not a man’s dwelling, often signifying every occasion when nothing remains but his most intimate soul. It is similar to one of the ideal points on the globe, such as the equator or the poles, the meeting places of mysterious currents”, M. Proust, Trois notes sur le “pays mysterieux” de Gustave Moreau, Rumeur des Ages Editeur, La Rochelle 2008.
[21] The work is preserved at the Musée Fabre Montpellier (France).
[22] G. Courbet, Il Realismo. Lettere e scritti, Universale Economica, Milan 1954, p. 35.
[23] D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, Rizzoli, Milan-Rome 1940.
[24] Lü Peng, Storia dell’Arte cinese del XX e del XXI secolo. From 1978 to the Present, vol. II, Rizzoli, Milan 2023, p. 801.
[25] “It is evident that colours used in their pure state or tinted with white, offer much more than just retinal sensations; they gain richness from the brains of those who give them life”, H. Matisse, Scritti e pensieri sull’arte, Einaudi, Turin 1972, p. 160.