VINCENZO FERRARI DOVE «PRONUNCIARE UN NOME SIGNIFICA FORMARE LA SUA IMMAGINE» 2021

DI ANDREA B. DEL GUERCIO 

Ho frequentato Vincenzo Ferrari a Brera nelle due distinte fasi della sua vita, prima e dopo quel terribile incidente che ne con- dizionò profondamente l’esistenza, che lo immobilizzò senza piegarlo e da cui seppe “uscire” per svolgere l’attività artistica e quella didattica con il solo strumento della voce, ancora con la dimensione della parola, cui aveva affidato gli inizi delle sue ri- cerche e costruito l’intero suo percorso espressivo. 

Ho avuto modo di osservare nelle sue due distinte sta- gioni una didattica fondamentalmente analitica, tesa a sostenere nello studente i processi progettuali prima che il prematuro raggiungimento dell’opera, attenta a sollecitare una riflessione responsabile orientata sulle origini del “pensiero visivo”, per dare solo successivamente soluzione alla redazione e al suo svi- luppo. Lo sguardo di Ferrari, prima ancora della parola di una voce flebile, era limpido, svelava l’osservazione degli errori, pre- tendeva di più dallo studente, per poi affermare un positivo pensiero. 

L’ARTISTA E IL DOCENTE 

Scrivere un saggio dedicato a Ferrari deve includere, a differenza di un alto numero di altri autori, e sottolineare le strette e ope- rative relazioni intercorse con il sistema dell’arte milanese, con le Gallerie private e con le grandi strutture espositive pubbliche, dalla Triennale alla Fondazione Stelline; si tratta di una speci- ficità già rara per la sua stessa generazione e di fatto qualificante, appartenente a quegli artisti-docenti ancora operativi a Brera tra le due guerre; un dato che, in base a diversi fattori, si è andato progressivamente riducendo. 

Le relazioni stabili con le Gallerie, prima la Blu di Luca Pa- lazzoli e poi la Milano di Carla Pellegrino1, cui va aggiunto uno stabile rapporto sin dalla nascita nel 1974 con il Mercato del Sale di Ugo Carrega, sommate ai grandi eventi espositivi interna- zionali, dalla Biennale a Venezia del ’72 e dell’86 a Dokumenta 6 di Kassel del 1977, Arte italiana 1960-1982 a Londra dell’82, rappresentano un patrimonio di esperienze importanti e una ri- caduta significativa nella definizione del suo duplice ruolo di ar- tista e di docente, titolare della cattedra di Decorazione a Brera. D’altra parte non deve sfuggire quanto la presenza di Ferrari in Accademia abbia rappresentato, nell’argomentazione e nelle infinite discussioni con l’amara disillusione di Alik Cavaliere2, il rifiuto di ogni mediazione al ribasso, con una vera e propria ir- ritazione nei confronti di un trend all’abbassamento dei valori e un’incisiva irritazione per la progressiva perdita di compe- tenze. Ricordo i suoi interventi al collegio docenti sempre ta- glienti, severi nei confronti del sistema ministeriale, ma anche dedicati alle responsabilità interne del corpo docente, al suo im- mobilismo, alla sua generale passività, in un quadro di crisi di progetto dell’intero sistema delle accademie italiane. 

Dobbiamo sottolineare e aggiungere, nella definizione dei suoi ruoli, quanto la stretta condivisione di progetti, in ac- cordo con un’estesa compagine attenta all’analisi e alla ridefi- nizione del linguaggio dell’arte – da V. Agnetti a U. Carrega, M. Mussio, L. Patella e V. Accame, A. Cavaliere –, l’affermazione di un più ristretto gruppo di ricerca riunitosi intorno al Manifesto della Nuova Scrittura nel ’75, rappresentino il riconoscimento di una “avanguardia militante” posta nella scia di quelle genera- zioni che avevano rinnovato la cultura novecentista attraverso la ricerca e la sperimentazione, pur senza negarne la lezione e i valori. 

I rapporti stabili e concreti con la dimensione professio- nale dell’arte contemporanea suggeriscono a Vincenzo Ferrari di attivare quelle relazioni con la didattica del fare dell’arte che ne stravolgono, rinnovandola, l’impostazione istituzionale gene- rale; non sfugge a Ferrari, grazie anche alla stretta collaborazione con Alik Cavaliere, docente di Scultura, la necessità di orientare la didattica verso la dimensione polifonica delle Arti visive, su- perando le specificità della stessa Decorazione, di cui pure da studente, nei primi anni ’60, aveva vissuto e appreso la natura e le regole attraverso i rapporti con Achille Funi, Aldo Carpi e so- prattutto con Gianfilippo Usellini: 

Comunque a me, e a molti altri, ha insegnato a vivere. E poi mi ha insegnato un metodo, anche indipendente- mente dal suo modo di dipingere: un modo così singolare, del resto, che non correvo certo il rischio di diventare un epigono… Credo che siano soprattutto due le cose che ho imparato da lui. La prima è che il quadro è un insieme di parti che approdano a una realtà finale: una realtà che tra- scende tutti i significati parziali. È un racconto che non è mai la somma dei suoi singoli elementi, ma qualcosa di più grande. La seconda è che l’opera è sempre frutto di un progetto3. 

Si tratta di principi di base che non abbandonerà mai, sia nello sviluppo espressivo, in dialogo tra testo e immagine, tra segno e strumento, che in fase didattica, di cui rinnova i principi della decorazione, conducendola verso un rapporto diretto con l’azione espressiva, sostenendo quei dati che hanno portato al- l’affermazione dell’individuale responsabilità artistica.  L’ARTISTA DELLA PAROLA E DEL LIBRO 

Vincenzo Ferrari sembra rispondere lungo l’intero arco della sua attività a un processo intellettuale contrassegnato dalla centra- lità della “domanda” così che ogni “risposta”, racchiusa nel- l’opera, sviluppi una serie di nuove “domande” cui si sente l’ob- bligo intellettuale di fornire nuove soluzioni. La successione delle carte e degli “oggetti” sin dalla fine degli anni ’60 nasce dalla necessità di imbrigliare i contenuti della parola e le sue va- riabili e combinazioni, sviluppando il significato che si distri- buisce nel pensiero per cui pronunciare un nome significa for- mare la sua immagine. Per rispondere a questo processo sicuramente complesso, per non perdersi nella dimensione il- limitata della fantasia e del patrimonio culturale con cui si con- fronta, Ferrari attiva un sistema analitico dettato da rigore com- positivo-costruttivo in cui il collage, la forma per eccellenza della cultura moderna, opera costantemente e lungo l’interezza del suo percorso, grazie anche al supporto di un dettato gram- maticale, in cui la geometria detta regole all’azione espressiva. 

È del tutto inutile utilizzare nei confronti di Ferrari quei processi che tendono ad attribuire l’appartenenza a quell’ambito o a quell’altro tra le aree codificate, che dovranno essere sosti- tuite da un’osservazione sperimentale fondata sulla libertà dei sentimenti, su una curiosità che s’immerge dentro il patrimonio complesso di una sensibilità personale imprevedibile. Se per molti dei suoi compagni di strada l’appartenenza alla Poesia Vi- siva rappresenta una traccia che si estende preziosa nel tempo, possiamo avvertire in Ferrari una personalità che allarga il suo percorso senza per questo perdere i contenuti, che tende cioè a proiettare lo sguardo lì dove l’occhio e l’udito – leggere, vedere, ascoltare – lo attraggono, sospinti dalla curiosità e dal desiderio di soffermarsi per tentare il dialogo e per scoprire i significati racchiusi: «L’opera è la domanda sui temi che hanno sempre maggiormente coinvolto l’uomo. E che anch’io non ho mai smesso di pormi»4. 

L’esperienza della “domanda” posta da Ferrari, di ciò che volutamente non può essere in nessun modo fonte di una sin- gola verità, ma che si ribalta attraverso la dimensione allargata dell’opera verso chi ha di fronte, che sia lettore o visitatore, sembra recuperare e riprendere attraverso una matrice concet- tuale quel processo espressivo che aveva osservato nella pittura di Gianfilippo Usellini, frequentandone lo studio. Ogni pagina del racconto, con quell’approccio alla normale quotidianità, che lo distingue dal territorio nobile e colto di de Chirico, cui pure Ferrari accede sempre in maniera indiretta e mai come citazione, si ribalta nella successione di documenti e di elaborati e in particolare nei primi anni ’80 nella redazione, mai abbandonata ma costantemente ripresa nei diversi eventi espositivi, di un gran numero di “libri d’artista”… che oggi “immaginiamo” estratti dal ciclo Biblioteca Magica cui Usellini aveva lavorato nel 1960. 

Segni, riferimenti sottili, tracce dello scorrere intrecciato dei pensieri, del loro inseguirsi in un labirinto reso indistrica- bile dal tormentato percorso delle annotazioni… le pagine si accumulano e, in una perenne stratificazione diventano li- bri, libri… e i volumi che il lettore ritrova in una misteriosa biblioteca dove l’antico e il moderno si mescolano nella ri- cerca di una realtà che diviene sogno per una riflessione, te- stimonianza di infiniti attimi temporali, schegge sparse di uno spazio – che è anche quello del foglio – e che non ap- partengono più al fluire quotidiano del tempo…5. 

LA DIMENSIONE SPAZIALE 

Anche il patrimonio “colto e antico” dell’arte, della letteratura e della filosofia, appare in Ferrari costantemente ambito di ri- flessione cui egli rivolge mirata attenzione e specifica elabora- zione creativa; ogni sua nuova azione conferma quel principio di responsabilità intellettuale che non vuole dare per scontato ciò che si eredita, di cui pensiamo di conoscere e di aver assor- bito i contenuti e la dimensione, così che a essa guarda dando vita negli anni ’80 a un percorso linguistico che possiamo anche definire in anticipo rispetto a una fase post-ideologica. 

Un processo che si spettacolarizza nel tempo attraverso le grandi dimensioni dei telai per poi andare a intervenire nello spazio attraverso un sistematico lavoro di installazione am- bientale. Si osserva come Ferrari concepisca il passaggio tra il di- segno, in cui sono già presenti la profondità spaziale e lo svi- luppo di geometrie quali memorie di una progettualità umanistica, verso un’inedita teatralità in cui si manifesta, in tutta evidenza, la forza del dialogo, promosso dal principio della contaminazione e della discussione, tra i termini posti in gioco. «L’opera si presenta pertanto come un’acrobazia, un pezzo di bravura o un gioco di prestigio; essa è un’entità complessa in cui valgono il sottinteso, l’ambiguo, l’evocazione di ciò che non è rappresentato». «L’opera finisce con l’essere un labirinto in cui ci si smarrisce e da cui non si cerca nemmeno una via d’uscita»6. 

Operazioni frutto di una contaminazione nata dalla stra- ordinaria sintonia umana e intellettuale con Alik Cavaliere, la cui cultura plastica spinge entrambi verso l’occupazione dello spazio, verso la configurazione di un “raccontare” attraverso la dizione che ogni frammento di realtà coinvolto suggerisce alla fruizione. Un processo che conduce entrambi a rileggere in par- ticolare la cultura classica, riscontrandola nel più recente pas- sato ed emblematizzata nell’opera artistica e nella figura cultu- rale di Achille Funi. 

Affrontano insieme nel ’96, nello spazio della Stelline, at- traverso la forza di un pensiero libero e indipendente da pre- concetti estetici e politici, la figura e l’opera di Achille Funi con un progetto espositivo (articolato in tre sezioni), Il classico e le me- tamorfosi; rileggono un autore centrale del Novecento ma anche un docente significativamente presente a Brera, rispetto al quale la condizione sperimentale del duo poteva sembrare tanto lon- tana; ne prendono possesso, ne rivalutano la portata, sia sul piano intellettuale sia emozionale, dimostrando con la sezione L’esilio di Ovidio quanto l’azione espressiva sia in grado di fornire alla dimensione storica quella dell’attualità, tenendola in vita, espressione di nuovi valori e di diverse suggestioni. È utile sot- tolineare come il progetto, impostato tra antichità e contempo- raneità, abbia attraversato l’arco espositivo del ’900 giungendo con la sezione Transaccademica alle nuove generazioni dell’arte “estratte” dalle accademie europee: da Milano verso Parigi, Lon- dra, Bruxelles, Helsinki, Düsseldorf, Monaco, Praga, Vienna e Atene. 

VINCENZO FERRARI OPERA PER «RICONDURRE I SEGNI GRA- FICI AL TERRITORIO DELLA PITTURA»7 

La sperimentazione nell’ambito dello spazio non esclude, anzi esalta, come esemplarmente sottolineato da Elena Pontiggia, un’operatività che insegue attraverso gli strumenti della pittura il tema della “bellezza”; a tale tema e dimensione complessa, forse ancora ideologicamente “inavvicinabile”, nel 1980 aveva, infatti, dedicato un corso a Brera, probabilmente in sintonia con quello incentrato sulla Decorazione tenuto da Zeno Birolli, ti- tolare della cattedra di Storia dell’arte, con cui era in stretto rapporto8. Ferrari raggiunge una condizione rapportabile alla di- mensione della bellezza attraverso un’equilibrata presenza di materiali, segnalando un arricchimento e rafforzamento dei dati coinvolti nell’opera, così che possiamo avvertire un recupero di relazione con il principio da cui la stessa decorazione stori- camente dipendeva nella sua prima stagione detta dell’Ornato. 

La presenza della foglia d’oro, l’opzione per la forma cir- colare del telaio e ancora le frequenti grandi dimensioni, so- spingono verso una fase espressiva in cui il tema esperienziale della domanda abbandona la stagione dura del confronto, a tratti del tormento e della preoccupazione, dell’ansia nella ri- cerca della “risposta”, per raggiungere il tempo della saggezza culturale e del piacere estetico, sempre e ancora stimolata dalla curiosità e dal desiderio della ricerca. 

Tutto sembra rispondere, nella redazione di ogni opera, a un controllo “ossessivo”, frutto di una tensione orientata alla per- fezione del risultato; ogni “pagina di pittura” di Vincenzo Fer- rari segue, dagli anni ’90, l’applicazione di un processo proget- tuale in cui agiscono compositivamente sistemi linguistici autonomi per storia, peso e valore iconografico: dal disegno anatomico a quello geometrico e dell’architettura, il colore come estensione dello spazio ma anche per distribuzione del fram- mento, mentre nuovi materiali sopraggiungono e si “deposi- tano” sulla superficie riducendo la presenza della scrittura: «Il bello come un gioco rovinoso determinato dalla tragica insuffi- cienza del pensiero è ciò che ci precipita nel caos del nostro in- timo»… «Il bello porta in sé i segni di quella complessità che pro- voca emozione e sconvolgimento tanto quanto scoraggia»… «L’idea del bello è un’idea banale che si trasforma in un’idea si- gnificativa, articolando ciò che è disgiunto e rendendolo pro- fondamente connesso».

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