Venezia Biennale 2019 – Dei giorni della “vernice”
Venezia Biennale 2019 – Dei giorni della “vernice”
di Andrea B. Del Guercio
Dopo 24 ore di pioggia battente sulla Biennale è tornato il sole a illuminare il popolo dell’arte che si è raccolto da tutto il mondo invadendo non solo le aree espositive dei Giardini e dell’Arsenale, ma anche l’intera città con oltre cinquanta eventi collaterali, istituzionali e non, spesso privati, anche alternativi al sistema ufficiale. Se il primo giorno ha visto la presenza centrale della stampa specializzata, da cui dipende la copertura mediatica più estesa mai raggiunta in campo artistico, nel secondo giorno di pre-apertura è la comunità che ruota intorno a Musei e Gallerie, Case d’Asta e l’infinita popolazione del collezionismo a invadere Venezia; una presenza importante danneggiata dal temporale e dal freddo anche durante la cena di gala per mille ospiti internazionali, rigorosamente a base di ostriche e formaggi della Bretagna, offerta da Francois Pinault, multimiliardario patron del lusso con interessi diretti nell’industria dell’arte contemporanea.
La svolta mondana iniziata e allargatasi nell’ultimo decennio, ha condotto la Biennale al di fuori della condizione specialistica per diventare sempre di più forma di costume e di comportamento globale, acquisendo interessi molteplici, andando ad attrarre l’investimento finanziario. Questa contaminazione è significativamente presente, con le sue luci e le sue ombre, nell’elaborazione dell’arte e dell’esposizione, interferendo e interagendo nella scelta degli autori e nella natura delle opere.
In questo clima si inserisce perfino la presenza inquietante della nave libica affondata con oltre 360 migranti ma la cui ‘offerta’ espositiva, rischia di vedere banalizzato il suo valore simbolico in quel tritacarne di reazioni che scontenta sia la destra che la sinistra.
Se questo evento inaspettato rappresenta l’apice di una strategia di provocazione, la dimensione ‘politica’ dell’Esposizione della Biennale invita, secondo un proverbio cinese, a vivere in tempi interessanti, “MayYou Live In Interesting Times” assume la centralità intorno a cui ruotano le opere di settantanove artisti internazionali; una presenza insistita dal Direttore della mostra, Ralph Rugoff, che conferma gli stessi autori con opere in molti casi indipendenti e diversi nei contenuti, tra i due spazi espositivi. Se la predominante degli artisti, spesso inediti e poco noti al grande pubblico, presenti volge per la prima volta nella storia della Biennale e in maniera significativa al femminile, per altro verso tutto l’insieme subisce l’influenza di origini ambientali e patrimoni espressivi provenienti dalle aree meridionali del pianeta. Senza spostare obbligatoriamente, rispetto a ciò che avveniva nel passato, l’attenzione sulla protesta politica e sociale di aree in cerca di riscatto, si afferma prepotentemente un racconto per immagini e per manufatti testimoni di un ‘paesaggio’ dall’Africa centrale e dall’India. La ricchezza diventa il dato caratterizzante inteso nella forma della quantità e della dimensione del narrare, dell’accumulo dei reperti antropologici; una proliferazione di testimonianze spesso ingenue, ma in grado di riportare l’arte all’attività di documentazione della realtà. Il percorso si fa ad ostacoli ma avvolgente non solo nella vista dell’arte ma in contaminazione dei sensi, dall’udito alla percezione tattile dei materiali e delle forme. I processi espressivi volgono, secondo un indirizzo nazional-popolare al gigantismo ma non al volgare, evitando il cattivo gusto, in altre realtà troppo diffuse; ritorna l’equilibrio tra le tecniche, con picchi di interesse per la pittura e per la scultura, mentre la tecnologia video ha stabilizzato i suoi processi comunicativi, ormai stabile patrimonio di eccellenza per gli artisti di origine cinese.
Se questa è la tendenza che si potrà incontrare e che favorirà la percezione fino a suggerire una partecipazione di un pubblico molto allargato, resta il dato di una massa di informazioni il cui valore perde di specificità estetica, raccolti in pochi autori emergenti, per qualificarsi nel ruolo di testimonianza di un’epoca comunque interessante, caratterizzata dalla inevitabile centralità della contaminazione più che dal conflitto.
Se poi è corretto porre la domandadi quanto potrà restare effettivamente di una tal enorme massa di materiali artistici, non abbiamo timore a prevedere che poco entrerà nella storia preziosa dell’arte, che molto materiale sarà distrutto e si perderà nei rivoli anonimi della nostra società.