Quando la creatività incontra la ricerca medica 2019
Quando la creatività incontra la ricerca medica.
“L’artista raccoglie emozioni che vengono da ogni parte: dal cielo,dalla terra, da un pezzo di carta, da una forma che passa, da una tela di ragno”. P. Picasso in Cahiers d’Art n.7 ottobre 1935
Lo spazio architettonico della Facoltà Teologica si articola su più piani e tra competenze diverse, tra le dimensioni individuali della biblioteca e quelle collettive dei corridoi e delle scale che collegano le aule tra di loro; abbiamo cosi ipotizzato di distribuire lungo i tre piani maggiormente frequentati dagli studenti e dai professori una Raccolta di Opere con l’intento di agire su due forme di percezione, quella in movimento e quella statica. Ritengo che rispetto alla tradizione espositivo-museale, pure contrassegnata da movimento (il passaggio nella successione delle opere) e da staticità (l’osservazione), nel nostro caso si sia attivata un’esperienza diversa fondata sulla specifica frequentazione dello spazio didattico.
Rispetto al Museo, la Facoltà è un luogo con valore di habitat familiare in cui gli studenti completano, spesso per molte ore al giorno, quella formazione che hanno scelto di seguire in vista del futuro; per i docenti è un luogo familiare, con definizione stabile della loro esperienza umana e professionale, al cui interno produrranno quella dimensione importante che ne definisce la più ampia quotidianità, arricchita dalla fase di studio e di ricerca. Possiamo affermare per entrambi, studenti e docenti, che la Facoltà assume il ruolo avvolgente della ‘casa di famiglia’, di quel valore che riunisce, in cui il confronto è dialettico, in cui si cresce attraverso il passaggio dell’esperienza .
Seguendo questa linea fatta di relazioni e di consonanze, si potrà tornare ad affrontare il valore dell’intimità quale componente rimossa nel sistema accelerato del consumo, includendo l’esperienza dell’opera d’arte nella fase di ingresso in quello che abbiamo definito l’habitat familiare; la riservatezza psico-fisica risulta un valore che non può essere dimenticato ma che si collega strettamente a quello attribuito alla propria casa, al luogo degli affetti e della crescita. Uno spazio-sistema sociale che si allarga fino a coinvolgere i luoghi della socializzazione, dalle scuole agli ospedali, alla gran parte degli uffici pubblici .
La presenza di un’opera d’arte, la sua a-funzionalità che si assorbe sotto forma di godimento dell’ospite’ e di piacere dell’ascolto visivo, ha la necessità di rispondere alla volontà di accoglienza; attraverso l’ospitalità entrano in gioco direttamente valori che fanno parte dell’intimità e della psicologia personale, del patrimonio depositato attraverso l’esperienza del vissuto, cosi che il gusto estetico non è solo il frutto della cultura e dell’informazione, ma il terreno sul quale si intende costruire l’affermazione e lo sviluppo della persona familiare. Attraverso l’ospitalità si decide di aprire le porte della propria ‘casa’ e con essa le dinamiche diverse del proprio nucleo sociale. Sappiamo che un errore di ospitalità, permettere l’accesso a un’immagine volgare, violenta, diseducativa, di fatto indebolisce e mina la qualità affettiva della vita che in essa si è perseguita; l’incidenza di un ospite di cui non si è calcolata con attenzione, di cui non si è verificata la portata del messaggio, è senza moralismo, un’esperienza rischiosa la cui ricaduta non è sempre facile prevedere, in particolare con proiezione futura.
La Biblioteca e la Pinacoteca.
Si tratta di comprendere il processo di trasformazione-arricchimento avvenuto nella Facoltà Teologica da Biblioteca a Pinacoteca, per giungere a capire il valore specifico di questo Progetto e i dati che sono stati raccolti in questo volume; in poche ore e per lunghi mesi quadri e sculture, manufatti di diversa natura formale, tutte relatrici di riflessioni visive mirate sulla dimensione tematica della ‘buona salute’ hanno rifondato lo spazio ‘teorico’ della Facoltà in caleidoscopio visivo.
Le opere hanno contrassegnato lo spazio della Biblioteca, si sono installate nell’archivio, hanno invaso i suoi spazi andando ben oltre le pareti libere, intersecandosi con le funzioni d’uso della dimensione percorribile; le installazioni tridimensionali hanno occupato e invaso obbligando a ‘circumnavigare’ la fisicità plastica dell’arte; i quadri hanno ‘aperto’ finestre dove il bianco di una parete suggeriva raccoglimento contro la distrazione, cosi la policromia aniconica ha risvegliato il ‘silenzio’ della riflessione e l’immagine figurata si è imposta indelebile alla lettura visiva. La distribuzione delle opere ha creato ‘rumore’ attraverso il cambio di passo tra scrittura e visione, trasformando la comunicazione da ‘segreta e protetta’ del libro a ‘immediatamente dichiarata’ dell’opera d’arte.
Alla luce di questo processo di installazione, vale la pena sottolineare per essere in sintonia esplicita con l’area tematico-esperienziale, come l’esasperata dimensione asettica degli spazi architettonici, l’impoverimento per ‘raffreddamento’ della condizione caleidoscopica del paesaggio urbano e specificatamente abitativo, immerga l’uomo in quella esasperazione della solitudine che può raggiungere lo stato depressivo. La dimensione iconografica del patrimonio storico ci ha insegnato il valore salvifico della bellezza, la condizione salutare di vivere in un luogo contrassegnato dalla cultura visiva; l’esperienza artistica svolge una attività terapeutica diretta, immediata senza mediazioni, impegni e obblighi; si propone diretta allo sguardo, si impone su di esso senza chiedere nulla, si mostra senza essere richiesta. “Come in qualsiasi gioco, l’abilità del pubblico nel conservare l’interesse dipende dalla sua capacità di immedesimarsi nel gioco (attraverso i giocatori)“. J.Kosuth L’arte dopo la filosofia 1969 . La presenza dell’arte nei luoghi di lavoro e di aggregazione sociale cosi come negli spazi privati, rivela una riduzione dello stato di stress, opera positivamente e stimola la creatività, correggendo appiattimento e routine quotidiana.
Ricordiamo e rapportiamoci idealmente alla ‘cultura’ interna alla casa, ripercorriamone lo sviluppo tra salotto, corridoi e locali della notte, tra area collettiva ed area individuale, per trovare una successione di rapporti e di relazioni con il patrimonio iconografico la cui specificità benefica per la salute dei suoi abitanti non può essere sottostimata. Sottolineiamo che fino a poche generazioni ora trascorse, vigeva un approccio espositivo a ‘quadreria’, dove cioè le opere seguivano una distribuzione organizzata tra estensione e concentrazione dello sguardo, tra platealità del colore e riservatezza dell’immagine; nel migliore dei casi, alla distribuzione a quadreria, contrassegnata dalla sovrapposizione secondo la tradizione antica, ha fatto seguito un percorso, iniziato negli anni ’70, sempre più lineare e tendente a dilatare verso sempre più ampi spazi di bianco-vuoto. Un processo di minimalizzazione, una tendenza ‘protestante’ all’aniconismo, i cui presupposti teorici risultano intervenuti più per impoverimento delle funzioni e delle esigenze estetiche, che per opzione ragionata e perseguita. La rarefazione e l’asetticizzazione di cui l’habitat privato si è andato caratterizzando per induzione di strategie di comunicazione e di costume sociale, rileva un impoverimento dell’esperienza di giudizio e riduce la stagione del ‘godimento’. Il progressivo abbandono di un sistema iconografico complesso e la desertificazione del paesaggio visivo, ri-congiungono l’habitat borghese con quello delle aree sociali più povere, da sempre prive di patrimonio estetico depositato e qualificato; parallelamente assistiamo alla tendenza di uno spazio ‘bianco’ in cui si inserisce con estrema facilità e immediatezza quell’area espressiva fondata linguisticamente sulla cultura della ‘citazione’ e del ‘cattivo gusto ‘, di un’estetica senza radici e senza futuro, frutto di una sensibilità contrassegnata dalla non-contemporaneità. “Se un’opera d’arte viene accettata o risulta influente è perché i suoi principi basilari rispondono a questa ‘immagine collettiva’. Questo è il fondamento della sua credibilità. Ed è ancora questa ‘immagine collettiva’ a permettere un’eventuale accettazione del lavoro, all’inizio inaccettabile per l’estetica regnante“. J.Kosuth L’arte dopo la filosofia 1969
L’opera contemporanea e il ruolo sanitario dell’arte.
“Ogni mattina, svegliandomi, sperimento un piacere supremo che oggi scopro per la prima volta; quello d’essere Salvator Dalì, e mi domando, colmo di meraviglia, cosa farà di prodigioso oggi questo Salvator Dalì. E ogni giorno mi è più difficile capire come gli altri possano vivere senza essere Gala o Salvator Dalì ” . S.Dalì Diario di un genio. 1964
Il pensiero, attraverso l’emozione, ci insegna che non può l’essere in vita a definire la contemporaneità di un artista, ma neanche la morte a deciderne l’esclusione dal presente; sappiamo che è la natura del nostro sguardo, con lo spessore della nostra sensibilità, a ‘tenere in gioco ‘ nell’attualità un’opera d’arte, anche a prescindere dalla sua data di redazione e dal contesto storico in cui il suo artefice è vissuto. Siamo noi e ogni nuova generazione di ‘lettori’, sia individualmente che collettivamente, a scoprire quanto un’esperienza artistica viva dialogando nel tessuto della quotidianità, in che termini si collochi in stretto rapporto con le nostre azioni e quanto faccia parte del nostro paesaggio. In quest’ottica definiamo l’attualità di un patrimonio di opere che abbiamo distribuito e installato suggerendo la ricchezza e la vivacità di idee espressive e soluzioni indipendenti ancora interpretando i processi di affermazione di una percezione determinata da ogni personalità creativa.
L’evento espositivo dedicato alla condizione di salute dell’uomo, diventa inevitabilmente un evento che supera i confini della storia dell’arte moderna per entrare nella sfera ampia del costume sociale; l’esperienza artistica si arricchisce e si completa attraverso una costante interferenza con tutto ciò che lo circonda ed al cui interno non ‘ricerca’ ma ‘trova’, scarta e raccoglie, seleziona ciò che avverte di prediligere: “L’arte non è l’applicazione di un canone di bellezza, ma ciò che l’istinto e il cervello possono capire indipendentemente da ogni canone. Quando si ama una donna non si fa ricorso a strumenti di misura per conoscere le sue forme: la si ama con tutto il desiderio possibile; eppure è stato fatto di tutto per applicare un canone anche all’amore”. (P. Picasso in Cahiers d’Art n.7 ottobre 1935). Cosi la ‘contemporaneità’ non rimane solo una testimonianza ma assume l’inedita nascita di una Collezione di Opere in grado di ridisegnare alcuni tratti, di rivedere esperienze e tasselli di una storia dell’esistenza; si rincorrono frammenti direttamente riferiti ad opere ormai appartenenti alla storia dell’arte, si incontrano fotogrammi biografici che raccontano emozioni rilette, si osservano tematiche esperienziali e soluzioni linguistiche che appartengono alla cultura del fare dell’arte. Gli artisti presenti con le loro opere lungo gli spazi comuni della Facoltà Teologica, appartenendo a generazioni e aree espressive diverse, scompaginano le carte di tutta una storia, rimescolano i passaggi fornendoci un percorso interpretativo nuovo; ogni opera rappresenta un momento di riflessione autonomo frutto, in alcuni casi, di introspezione ed in altri di acquisizione dei valori estetici, per rispondere complessivamente al suggerimento prezioso di leggere e percepire l’arte attraverso la sensibilità: Se Pablo Picasso segnala che “Tutti vogliono capire la pittura. Perché non cercano di capire il canto degli uccelli? Perché amiamo una notte, un fiore, tutto quanto circonda l’uomo senza cercare di capire? “Fernand Leger sottolinea che “L’opera d’arte resta appannaggio dei sensitivi, è la loro rivincita sugli intelligenti“.
Le parole di Picasso e di Leger mi suggeriscono di non parlare direttamente della malattia anche se intorno ad essa ruota la gran parte dell’esposizione e probabilmente dei contributi raccolti in questo volume; non voglio parlare neanche della buona salute che dovrebbe poi essere l’obiettivo finale a cui tutta l’operazione dovrebbe tendere. Le due questioni, malattia e buona salute, sono per le opere d’arte che abbiamo scelto e collocato, in stretta relazione tra di loro, facendo parte di una materia unica e compatta, sia nella fase concettuale del concepimento che in quella di redazione, e, aggiungerei, cosi come è stato sottolineato, di collocazione e forse di fruizione, almeno per i suoi più fortunati lettori. Sappiamo bene infatti quante difficoltà si frappongono nei processi di percezione dell’opera d’arte, ma anche quante incomprensioni separano le normali relazioni con la produzione contemporanea; non sfugge per altro verso come la stessa accettazione culturale e/o di corrispondenza sensibile sia spesso frutto di forzature personali, appropriazioni esasperate, spesso poco credibili.
Cosi è difficile tentare di scindere il processo di contaminazione tra il bene e il male, se è nel processo di stesso di fruizione dell’opera che si confrontano di fatto queste due stesse condizioni: “Io divento sacerdote e servo, compio e vengo compiuto trasformo legno ed erba in cenere, aiuto ciò che è morto a svanire più in fretta e a purificarsi, e in me stesso, meditando, a ritroso percorro gli stessi passi dell’espiazione dal molteplice all’Uno e devoto contemplo l’immagine di Dio” .H.Hesse, Ore in giardino, 1936
Nel quadro tematico posto agli artisti, ritengo che le arti visive, per la natura comunicativa che gli è propria e che abbiamo anche in questa sede colto in forma indipendente dal sistema dell’arte, sia chiamata a svolgere un ruolo ‘sanitario’; l’artista sta al suo lavoro come il contadino sta al suo orto avendo l’obbligo di interagire con una materia fisica in grado di fruttificare sotto i suoi occhi, grazie all’azione coltivatrice delle mani; fare una scultura come redigere un affresco, stendere la creta e manipolare il bitume, spremere il colore dal tubetto e inchiodare le assi sono passaggi verso la produzione di una realtà ‘alimentare’, in grado di donare piacere, rispondente alla ‘fame d’immagine’ del consumatore d’arte. Le parole di Hermann Hesse racchiudono questo principio e sono testimoni di una sensibilità espressiva che ha saputo collegare l’esperienza del giardinaggio con quella della pittura ad acquerello (ricordiamo che si tratta della tecnica in grado di suggerire leggerezza e libertà); all’interno della cultura dello scrivere si inseriscono con valore ‘terapeutico’ due forme attive del pensiero in cui la mano si confronta con la realtà della produzione, di cui avverte la trasformazione fisica di un patrimonio, in cui l’azione produce un bene tangibile, in cui i sensi sono interamente coinvolti, in cui sudore e immaginazione, gesto e creatività si incastrano e si sommano, operando nella produzione di un ‘bene commestibile’: “A poco a poco, come colui che assorbendo ogni giorno un determinato alimento finisce per essere modificato nella sostanza e perfino nella forma, ingrassa e dimagrisce, trae da quelle pietanze vigore o contrae nel’ingerirle mali che non conosceva, mutamenti quasi impercettibili si operavano in lui, frutto di nuove abitudini acquisite…” Marguerite Yourcenar dall’Opera al nero 1968. Attraverso le parole della scrittrice francese intendiamo sottolineare come la ‘frequentazione sensoriale’ dell’arte, rappresenti un passaggio importante nei processi terapeutici della fruizione dell’opera d’arte; la consistenza materiale e l’incidenza delle tecniche meccaniche che intervengono e contrassegnano il manufatto, offrono al lettore un sistema di relazioni operative in grado di attrarlo, di captarne il coinvolgimento. La stessa dimensione dell’opera assume un ruolo ed occupa lo spazio con la più ampia variabile volumetrica e l’estensione delle sue superfici; dalla frequentazione dei luoghi e degli ambienti, alla percezione delle miniature si estende l’arco delle possibilità espressive, andando a coinvolgere la partecipazione del fruitore, obbligando in molti casi al confronto e allo scontro. Nella stagione antica come in quella moderna e contemporanea il patrimonio espressivo, ha visto persistere la più ampia copertura di soluzioni rilevando nel lettore la relazione operativa tra arte e vita, la presenza dell’una nell’altra. La fisicità dell’arte stimolando la corrispondenza e la partecipazione con il ‘fare’ svolge un ruolo ‘terapeutico’: “Sappiamo, ormai, che la forma rappresenta soltanto il prodotto di un processo inquisitorio della materia: la specifica reazione della materia sottoposta alla tremenda coercizione dello spazio, alla torturante pressione da ogni lato, finché si componga, esplodendo negli esatti contorni della sua propria originalità reattiva…” Salvator Dalì La mia vita segreta. 1949
Del fare dell’arte.
Il fare dell’arte produce un patrimonio di opere frutto della frequentazione dell’esistenza.
“L’arte, questa dea apparentemente così spirituale, aveva necessità di tante cose futili! Di un tetto sopra il capo, di strumenti, di legni, di creta, di colori, di oro:esigeva lavoro e pazienza. A essa egli aveva sacrificato la libertà selvaggia dei boschi…”. H.Hesse da ‘Narciso e Boccadoro’ .
Lungo questo percorso vorrei sottolineare l’ambito dell’esperienza frutto del lavoro di redazione dell’opera d’arte; questo passaggio quale componente tangibile del fare che nella stagione moderna e contemporanea ha assunto forme polimateriche …. Si tenga strettamente presente l’indicazione preziosa di Eugènie Delacroix quando suggerisce al “Giovane artista , cerchi un soggetto?Tutto è soggetto, il soggetto sei tu; lo sono le tue impressioni, le tue emozioni di fronte alla natura. E’ in te stesso che devi guardare, non al di fuori di te.”
In stretta relazione con le linee teoriche del Progetto Espositivo intendiamo porre in evidenza il ‘fare dell’arte’ sia sul piano della relazione con il Tema della ‘salute dell’uomo’ ma anche e in particolar modo per rispondere alla natura didattica del luogo. La ‘bellezza come esperienza salvifica’ dell’umanità, segnalata dal Cardinal Carlo Maria Martini, rientrando pienamente nel Tema fonda e completa i suoi valori attraverso la pratica della creatività; non possiamo disgiungere, senza perdita di esperienza, quelle fasi che includono la preparazione e che conducono allo svelamento dell’azione espressiva. Nell’arte occidentale e in particolar modo in quella contemporanea assume un peso e un significato attivo, aggiunge un valore indipendente e aggiuntivo all’opera, la sua redazione, intesa come installazione nello spazio e manipolazione delle forme. Questa fase assume nel confronto con gli studenti della Facoltà un rafforzamento di valore, permettendo una partecipazione attraverso la frequentazione, l’ascolto e l’osservazione; lo studente potrà giudicare il risultato finale dell’opera conoscendo-vedendo la nascita e la collocazione; lo studente non sarà un passivo frequentatore ma si confronterà con ciò che è stato realizzato per lui e per l’habitat in cui opera. Troppo spesso le opere d’arte contemporanea ‘cadono dall’alto’ senza relazione con il lettore in loco, oltre ad essere testimoni specifiche di sensibilità e comunicazioni personali, spesso poco condivise; dobbiamo evitare questo passaggio freddo e poco empatico e rinserrare gli spazi di relazione sensibile; nella stagione antica al decoro di una Cappella e all’arrivo di una Pala d’Altare in Chiesa, partecipava la popolazione in ‘pubblica processione e benedizione’. Si potrà comprendere da questa esperienza diretta che l’azione creativa dell’arte risponde ad una sua ‘liturgia’, cioè ad un comportamento e a una relazione interdisciplinare con lo spazio e le sue funzioni, con la socialità che vi opera. In questo ambito esperienziale si collocano anche le fasi di allestimento espositivo di opere che sono giunte con gli artisti nella Facoltà; anche questa azione si basa su un processo teorico-critico che media tra la ricerca dell’opera di comunicare al fruitore i suoi valori con le esigenze della percezione in base alle caratteristiche dello spazio:“Offri strappa contorci/io attraverso/accendi e brucia accarezza e lecca bacia e guarda/io suono le campane a distesa finché sanguinano/spaventa i piccioni e falli volare attorno alla colombaia/finche cadono a terra già morti di stanchezza/io tapperò tutte le finestre e le porte/con terra e coi capelli/impiccherò nelle mie braccia l’agnello/ e gli farò divorare il mio petto/lo laverò con le mie lacrime di gioia e di dolore/e lo addormenterò al canto della mia solitudine/ e inciderò all’acquaforte campi di grano e d’avena/e li vedrò morire coricati di fronte al sole/e avvolgerò i fiumi in fogli di giornale/e li getterò dalla finestra del ruscello /che si pente con tutti i suoi peccati sulle spalle/se ne va contento ridendo nonostante tutto/a fare il suo nido nella cloaca/io romperò la musica del legno/contro le rocce delle onde marine/e morderò il leone alla guancia/e farò piangere il lupo/di fronte a un ritratto dell’acqua/che nella vasca da bagno/lascia cadere il suo braccio”
in Cahiers d’Art” 1935
Del ruolo sanitario dell’arte. Dalla Casa al Borderland.
Mi è capitato di indagare allargando lo spazio della creatività; ho vissuto lo stato di borderline attraverso la mimetizzazione della malattia mentale, il male che si ripete e che inquina, il mancato riconoscimento per diffusione e distribuzione. La solitudine di fronte al rifiuto del bello. Ho verificato il Borderline travalicando nel Borderland dell’Arte Contemporanea ed ho riscontrato un territorio di frontiera; la sua vastità continua a crescere percorsa incessantemente in lungo e in largo, con spostamento costante dei suoi confini certi verso nuovi paesaggi; frontiere spostate dall’artista moderno, manipolatore responsabile delle infinite e diverse componenti, materiali e immateriali del reale; la sperimentazione linguistica si applica e si verifica nell’incontro con le presenze, evidenti e nascoste, ideali e materiali, rintracciate sul territorio di percorrenza dell’uomo, e si consolida all’interno di quei materiali di «supporto» specificatamente rispondenti al progetto creativo. Realtà come «deposito culturale» al cui interno ritrovare memoria, storia e passato; l’impegno è rivolto verso questo mare di ricordi lontani, inafferrabili e impercettibili, immediatamente vicini, e quindi riordinarli dando vita a un’ulteriore memoria collettiva, ancora più ricca e sempre nuova. Realtà è quindi anche la religione, l’epica, il racconto orale se essa non è manipolata come «citazione», il che comporterebbe il mancato rinnovamento del deposito, ma se si caratterizza in forma di «inscrizione», quale fondata prassi per una nuova vitalità della realtà. Così è il «territorio» a porsi al centro di un viaggio moderno con la sua valanga di testimonianze depositate nel fluire dei movimenti naturali, nell’incedere costruttivo dell’uomo, tra i segni animali; legarsi al territorio e incedere in esso con i propri bagagli colti, elaborati in un arco breve di tempo, aprirsi ad una progettualità che attraversa il nostro secolo, dalle diverse Avanguardie Storiche a quelle Contemporanee, predisporre un nuovo vocabolario e una nuova sintassi, e con quell’indispensabile sensibilità individuale tutto ciò che è ancora enigmaticamente reperibile nello scorrere degli eventi e del tempo, quello antico e quello moderno, tutto questo è Borderland.
Borderland diventa una sede, un luogo fisico d’incontro e di riflessione in base ad una manipolazionefruizione delle singole opere e del loro interrelarsi vivacissimo, quantitativamente prolifico; Borderland è così luogo, terreno di raccolta, una radura per l’incontro collettivo, una biblioteca della fruizione diretta di ogni radice storica e delle nuove prospettive della sperimentazione, un porto internazionale, una pista di atterraggio per carichi di mercanzie lontane, una palestra linguistica tra il persistere produttivo della memoria, singola e collettiva, antica e contemporanea, per proiezioni nel futuro.
All’interno dei complessi processi di ricerca e di analisi tesi a raggiungere e ad arricchire di spessore l’umanizzazione della cura medica, suggerisco di tentare una sintonia con il patrimonio prodotto dall’arte; ogni tassello, ogni funzione e stato di questo ‘sistema e percorso’ di cura e di riabilitazione, di conoscenza e quindi di salute sono presenti nell’esperienza dell’arte, sono riconoscibili nel grande Raccoglitore Antropologico dell’Arte Contemporanea; stazioni di una creatività che muovono dalla relazione con il Ready Made di Marcel Duchamp, con l’Objet Trouvé di Pablo Picasso fino a configurarsi nei processi di accumulo della stagione Fluxus degli anni ’50 e ’60, nelle forme di percezione e di partecipazione, nella produzione materiale e nel vissuto esistenziale che unisce strettamente l’autore e il fruitore dell’opera.
Ponendosi all’interno ed in relazione con le “funzioni della vita quotidiana” la cultura artistica ha prodotto un caleidoscopio aperto, percorribile e sul quale la fruizione agisce direttamente;”l’artista possiede gli elementi per conoscere le emozioni, senza reprimerle, costruendo orizzonti similmente a ciò che si staglia nel risveglio del mattino e rende possibile un nuovo ingresso nella realtà umana quotidiana” Sergio Marsicano Psiche,Arte e territori di cura, Franco Angeli Editore 2010. E’ sulla base di questa comunione di analisi e di speranza che il laboratorio dell’arte debba essere vissuto nei processi di quotidianità senza la frattura ambientale della galleria e del Museo, per volgere il suo obbiettivo alla ‘casa’, così come per secoli è avvenuto senza che alcuno se ne accorgesse, ma avendo di fatto la ‘casa’ come reale obbiettivo del fare dell’arte e dello stare delle opere. Sappiamo e giudichiamo la ‘casa’ un porsi dell’esperienza quotidiana, delle sue funzioni e necessità, in stretta relazione con l’esperienza estetica lungo un percorso che da Lescaux ci ha condotto al Louvre, sempre in funzione della configurazione di un habitat privato, in cui il bene, quindi la buona salute è l’asse centrale delle azioni umane; così che tutto sembra ruotare intorno alla questione della ‘casa ospitale’a cui si vanno collegando ogni tipologia di casa sociale, dalla Casa di Chiesa alla Scuola, all’Ospedale: “Da circa mezzo secolo si serviva della mente come di un cuneo per allargare, meglio che poteva, gli interstizi del muro che da ogni parte ci stringe. Le fessure si dilatavano,o piuttosto sembra che il muro perdesse da sé la propria compattezza senza tuttavia cessare d’essere denso, quasi muraglia di fumo anche di pietra. Gli oggetti non adempivano più alla funzione di accessori utili…una foresta riempiva la camera…Le scarpe che sbadigliavano sull’orlo del letto si erano mosse al respiro di un bue disteso sull’erba, e un maiale dissanguato urlava nel grasso di cui il ciabattino le aveva spalmate…Un’oca sgozzata schiamazzava nella penna che sarebbe servita a tracciare su vecchi cenci idee credute degne di durare per sempre” Marguerite Yourcenar dall’Opera al nero 1968.
“Wwenn Kreation auf Forschung trifft” sta in “Kunst heilt Medezin” Tyrolia Edizioni Università di Graz (Austria).