Ivano Sossella

L’azione espressiva opera in funzione di un intervento espositivo dedicato all’assenza o forse meglio alla presunzione di inesistente, scoprendo quanto in esso sia presente una ricca materia. 

di Andrea B. Del Guercio

Sono convinto che Ivano Sossella sia un uomo estremamente intelligente; questa sua dote lo obbliga a tenersi a debita distanza da tutto ciò che espressivamente, può risultare scontato e banale, dove cioè la normalità possa annoiare e deludere la sua stessa intelligenza. Questo semplice ma chiaro dato è il principio su cui si costituisce, e non da questa stagione, lo svolgimento di ogni azione artistica e la produzione di quelle che ancora definiamo opere d’arte. Non vorrei che questa premessa sia interpretata come appoggio e sostegno, un funzione di autoreferenzialità, alla provocazione creativa che contrassegna, il linea con le Avanguardie Dada, le Seconde Avanguardie e il loro più recente deterioramento; sarebbe estremamente limitativo e soprattutto del tutto non riferibile al vero principio di ‘trasgressione’, di ‘provocazione’. In nessun caso stiamo parlando né di sperimentazione né tanto meno di provocazione, di quella tendenza tanto diffusa anche in questa più recente stagione da rendere noioso un banale processo estetico fondato ancora sulla ‘citazione’, cioè sulla menzione del ‘già visto ‘: mi riferisco al territorio svuotato di senso di una banalità senza contenuti.

Quello che mi interessa in Ivano Sossella è il tentativo per lui obbligatorio di rifiutare le fasi e tutto ciò di cui ci si può accontentare, dove cioè l’intelligenza sente l’obbligo di essere se stessa quale soggetto dell’arte; un comportamento che tiene anche di fronte all’estesa dimensione della banalità, dello scontato tanto presente nell’ esperienza umana.

La stanza del Museo è una ‘soglia’.

Se il percorso espositivo di un Museo è per sua natura istituzionale caratterizzato dalla distribuzione spaziale delle opere d’arte, il suo attraversamento e lo sguardo si svolge con l’obiettivo di soffermarsi, di stazionare, anche per breve tempo; la percezione cerca e raccoglie dalla memoria gli strumenti culturali e dalla sensibilità l’emozione. 

Di fronte a prassi e abitudini correlate e consolidate, l’attenzione di Ivano Sossella si è rivolta a cercarne di capirne il contro-valore, ad osservare quanto si potesse ‘apprendere’ dalla loro messa in discussione; il processo di analisi ha preso in esame non tanto la ‘cancellazione’, ancora legata al percorso di ‘sottolineatura’ proprio della vitale stagione espressionista, e tanto meno agli estenuanti processi di riduzione, a loro volta eredi del minimalismo, per scegliere di soffermarsi sulla condizione di ‘soglia’, sia del tempo che dello spazio. D’altra parte sappiamo che solo attraversando la soglia d’ingresso al Museo, quindi con la nostra effettiva presenza fisica, le opere iniziano effettivamente a vivere la condizione artistica. Sossella ci trattiene sulla ‘soglia’ dove si esplica la concezione di uno spazio della sospensione in cui l’assenza ne è la materia vissuta. 

La Stanza dei quadri senza ricordi.

La dimensione è sostanzialmente ridotta, molto più vicina ad una diffusa tradizione ‘intimista’ che una sbiadita carta da parati con un’attaccaglia stampata di gusto ‘piccolo borghese’ sottolinea; le pareti ospitano una successione ordinata, con una distanza regolare che lo sguardo percorre nel tentativo, come è prassi, di stazionare su una immagine prima di passare alla successiva. Gli indicatori cromatici di un clima trattenuto, privo di accensioni emotive, sono una successione di rosa, grigio-verde ‘smorzati’ fin nella composizione  grafica.

Mentre la tendenza e la gran parte delle linee espressive tendono a recuperare il ricordo, a trascrivere la memoria, prima che essa si affermi definitiva su tutta l’esperienza dello sguardo, i tasselli di una narrazione visiva operano sull’esperienza dell’irrecuperabile, forse neanche dell’inimmaginabile; il processo espressivo sembra non permettere soluzioni recuperabili attenendosi alla presenza-assenza.

La stanza dei quadri senza quadri.

L’intera parete del Museo è blu come piacerebbe a Yves Klein ed un classico cordone di separazione ne protegge un eccessivo avvicinamento lungo tutta la sua estensione; anche in questo caso l’assenza di un materiale iconografico ‘prezioso’  mette in dubbio la veridicità di una ipotesi di protezione. 

La percezione del blu in una dimensione ambientale attrae lo sguardo sempre alla ricerca di soffermarsi, di posarsi sulla presenza che l’apparato museale di separazione concettualmente ulteriormente tenta di sottolineare; l’estensione spaziale nell’architettura apre ad una ricerca non solo visiva ma anche di percorrenza del tracciato espositivo cosi che l’esperienza diventa più difficile da accettare, fino a risultare anche irritante; avanzare con lo sguardo ma anche tornare indietro ‘a mani vuote’ accettando interamente l’esperienza dell’assenza. Non più quadri come finestre che ribaltano lo sguardo, ora verso il paesaggio esterno ora verso l’interno, relatrici di avventure dell’immaginazione e promotrici di emozioni, ma bensì cogliere senza ne attraversamenti ne ribaltamenti, prediligendo quella condizione di sosta, di silenzio, di nuovo luogo a cui nessuno a dato voce.

Ho incontrato le ‘immagini del pensiero’.

Ho imparato a vivere l’esperienza dell’arte vedendola fare negli studi e negli spazi del Museo, quando la materia prende forma e si installa nello spazio, cosi che la percezione ne possa prendere possesso; ma ho anche assistito a processi espressivi che si ponevano di fronte ad ‘immagini del pensiero’ che non necessitavano di una traslazione materica rimanendo nella sfera della pura immaginazione. In quest’ultimo ambito, grazie al sostegno del linguaggio letterario e di una costante riflessione teoretica, Sossella si è posto da tempo, raggiungendo mirati risultati estetici contrassegnati dall’esasperato processo dell’esperienza analico-visiva. In questi mesi ho potuto non solo confrontarmi direttamente con la sua innata predilezione per un’azione artistica che tenesse sempre più conto, fino a dipendere interamente, dal pensiero speculativo,  ma anche partecipare alla redazione visiva di una realtà immateriale: nella Facoltà Teologica dell’Università di Graz in Austria e più specificatamente all’interno della Biblioteca e dell’Archivio, Sossella si è trovato ad affrontare e a risolvere, con tutto il peso dell’esperienza teologica, il puro atto percettivo dell’iconografia cristiana. 

Quando la Città scopre di avere immaginazione.

Con alle spalle soluzioni predisposte esclusivamente in ambito privato, all’interno dello spazio ‘protetto’ dell’architettura, Ivano Sossella ha affrontato l’esperienza polifonica della città mettendo in moto un’azione espressiva in grado di mostrare pubblicamente ciò che pur non esistendo dovrebbe esistere fino a percepirne la presenza. Si deve tenere presente, per entrare in sintonia con l’operazione di visualizzazione di una presunta assenza dal reale, che anche in questo caso, cosi come avviene per l’opera d’arte nel Museo, la dimensione urbana esiste solo in corrispondenza con le funzione sociali, senza la cui azione partecipativa scadrebbe nella genericità di un manufatto ambientale. 

L’ombra che si allunga, la traccia che incontriamo di un monumento equestre, in bilico tra assenza e presenza, assume pienamente i contenuti culturali, il valore di testimonianza storica della sua stabile origine iconografica; non una cancellazione ma neanche una edificazione, forse solo la presenza ‘ingombrante’ del pensiero estetico in grado di vedere sempre e ovunque all’interno di se stesso. Perché questo è l’obiettivo affabulatore di Ivano Sossella: indagare ciò che comunque esiste, frutto delle nostre realtà esperienziali, fino a “dimostrare – con le parole di Paolo Ferrari neuro-scienziato – quanto nell’attività del pensiero umano sia importante, quasi necessario, il ‘processo del venir meno ‘, del mancare;  il sottrarre rispetto all’accumulare ( il segno – più che il segno +) l’oblio consapevole piuttosto che il “ricordo forzato”.