Eliseo Mattiacci

di Andrea B. Del Guercio

Sono le parole dello stesso Eliseo Mattiacci ad introdurre l’osservazione critica, «Attingere alle origini irradiate come da stratificazione, di energia fossile, echi della me­moria, sguardo verso il futuro, rendere il tutto essen­ziale».
La dichiarazione illumina su un procedere attento, al cui interno coesistono interessi culturali, di volta in volta individuati e specificatamente affrontati lingui­sticamente, sintomatici di una lettura interpretativa am­pia, tra tracce depositate e nuove reazioni, dell’esiste­re. Si tratta di una cultura visiva qualificata sempre dal «fare», intendendo partecipazione attiva, non mediata progettualmente; l’ingresso, in prima persona condotto, di una macchina schiacciasassi nei locali della Galleria l’Attico nel 1969; lo sprofondamento fisico nella ma­teria, per tattile autoriconsiderazione nel fango nel 1973, oggi una produttività posta in relazione con ma­nufatti e processi meccanico‑industriali.
La presenza nel percorso espressivo di Mattiacci, di materiali di supporto comunque caratterizzati sul pia­no costruttivo‑comunicativo, sicuramente non effimeri, relatori tangibili di messaggi, qualificano interessi cul­turali, sostengono una strategia espressiva che potrem­mo definire all’interno di un clima «antropologico», dove il territorio presenta confini aperti tra passato e presente, tra l’uomo e la società, ma anche un’area di interessi da cui consegue il costante impegno sperimen­tale, sia sul piano linguistico‑visivo, tra oggettivazio­ne e progettualità dell’opera, che dei contenuti e delle aree problematiche.
Le produzioni plastiche di questi ultimi anni, forse me­mori della carica espressa nella già citata performance del ’69, appaiono concentrate formalmente e temati­camente su una condizione di energia, ancora e simul­taneamente antica, attraverso il «Carro solare del Mon­tefeltro» dell’86, e moderna, con «Esplorazione magne­tica» dell’88; un’energia implosa, raccolta ed immobi­lizzata per grandi macchine rotanti, rigorose ed essen­ziali in grado di attraversare l’arco intero dell’esperienza costruttivo‑sperimentale dell’uomo, e quindi non riduttivamente aggressive, ma bensì culturalmente pre­disposte alla ricezione ed allo scrutamento, alla perce­zione di messaggi e di altre esperienze.
Ogni grande «carro», sembra attentamente preser­vare al suo interno, nel clima immobilizzato ma elo­quente del moto e della ricezione, valori progettuali verificati negli anni ’70, ma é anche il risultato di rela­zioni specifiche con la produzione industriale, di cui esalta e moltiplica i significati rispetto alla originaria destinazione; un processo quindi di rimanipolazione ancora caratterizzato antropologicamente.