La scultura di Giò Pomodoro come presenza del ‘vuoto’

di Andrea B. Del Guercio 

Il passaggio sostenuto da Giò Pomodoro a cavallo tra il 1957 e il 1958, cioè tra il ciclo di ‘Segni in negativo’ alle ‘Superfici in tensione’, correva sull’incidenza inscindibile tra una volontà espressiva tesa a indagare gli spazi di comunica­zione specifica della scultura e le rigo­rose ragioni di conduzione della redazio­ne plastica; un fattore questo di ‘cultura’ della scultura sotto la cui luce è possibile leggere non solo questa significativa fase di indagine ma anche l’intero processo espressivo di Pomodoro ed i suoi diversi e specifici passaggi linguistico‑proble­matici.
Il passaggio dal ‘segno’ al ‘volume della superficie’, nelle forme contrapposte di presenza‑assenza, di vuoto‑pieno, di concavo‑convesso, indicano, sul piano teorico‑estetico, la collocazione dell’arti­sta all’interno di un progress espressivo in cui determinante è l’opzione per una gestione della comunicazione, in cui analitica è la progettazione e codificata l’elaborazione; mentre nella ‘tavola’ di ‘Segni’ il processo visivo è di comunicazione diretta di una grammatica insistita dell’uomo a cui la scultura apporta il contributo estetico del bronzo e l’aura avvol­gente del manufatto, la superficie compressa della ‘Tensione’ del ’59 e successiva­mente in estensione della ‘Folla I’ del 6 conducono alla percezione di una condi­zione di stato della materia, ad una realtà comunicante estroflessa‑introflessa spe­cifica della scultura nel suo rapporto di esistenza con il vuoto ed il pieno dello spa­zio.
Sosteneva questa nuova stagione espressiva, non più l’incidenza apportata dall’e­sterno verso l’interno dell’opera, pure caratterizzata da un rigore compositivo rive­latore di una tensione analitica, ma una progettazione in grado di proporre l’atto di auto‑comunicazione della scultura; le monumentali ‘superfici in tensione’ sono per­tanto il risultato di un sistema che “…ponendo in tensione superfici di stoffa o di gomma, modificandole con tiranti e con corpi prementi, e colando del gesso liqui­do che si solidificava su questo ‘supporto’ in tensione, autoportante, proprio per­ché posto in tensione” rivelano la “coincidenza di risoluzione dell’antitesi che governa e insieme sempre insidia non solo le opere prodotte, ma anche i processi formativi delle forme scolpite”. Le indicazioni tecniche ed il giudizio problemati­co espresso dallo stesso Pomodoro contribuiscono a definire l’area d’incidenza espressiva dei grandi bronzi; l’abbagliante sensualità delle superfici specchianti del bronzo e delle lucidità esasperate dei marmi catalizzano la percezione, tutto ciò va ricondotto all’interno di una scultura tesa ad affermare, con strumenti e valori forti, formalisticamente astratti e per progettazione concettuale, la coscienza del suo essere nello spazio; una concezione della scultura maturata attraverso, la diffusione e la dislocazione, lo sconfinamento ed il movimento nello spazio ma anche da que­sto essa stessa prodotta.
Gli anni ’60 sono per Giò Pomodoro il momento di una nuova affermazione della scultura in quanto ogni elaborato tende ad imporsi attraverso il dialogo con lo spa­zio, ma dove in esso individua la realtà persistente del vuoto anche in presenza del pieno della materia; si tratta cioè di una scultura che sembra nascere dall’interno del concetto di spazio ed è la ‘Grande folla II’ a insinuarsi distendendosi come parete animata, il ‘Quadrato Borromini I’ del ’65 che opera attraverso la stati­cità , il ‘Liberatore nero’ che minimalizza il movimento delle proprie superfi­ci e dei propri confini per serrare i fattori della sua esistenza .