Rinaldo Invernizzi

di Andrea B. Del Guercio

Questo volume mi permette di intervenire sulle questioni dell’arte sacra contemporanea, affrontata attraverso le specificità di un’avventura espressiva monografica, caratterizzata dalla centralità del colore e posta all’interno dell’unità della materia simbolica.
Lungo questi anni di studio dedicati alla frequentazione iconografica del patrimonio teologico e dell’esperienza liturgica, ho potuto osservare quanto la cultura dell’arte contemporanea si qualifichi e si specifichi soprattutto attraverso sistemi espressivi monografici; con mirata attenzione critica ho potuto osservare quanto l’approfondimento dell’arte nel ‘territorio del sacro’ e sulla ‘natura religiosa’ della cultura sociale, abbia introdotto rispetto al più generale sistema dell’arte contemporanea, il dato dell’autonomia e della specificità.
Gli eventi espositivi che ho potuto coordinare, le iniziative editoriali e l’istallazione dell’arte nel ‘luogo di culto ’ a cui mi sono dedicato fanno affiorare la riflessione e segnalano quanto centrale sia il dato prezioso dell’esperienza personale, di un produrre visivo in ragione di un confronto individuale, serrato e profondo, anche se frequentemente caratterizzato da una condizione riservata, forse anche con una posizione di marginalità .
Posizionandosi all’interno del tessuto ‘sacro’ dell’arte, l’artista appare coinvolto in un percorso culturale e quindi in un processo creativo in cui vanno ad agire l’infinito peso dell’esperienza spirituale delle origini e della sua storia, con l’originalità che si rinnova nell’individualità; ritengo che non si debba porre distanze tra l’arte sacra antica da quella contemporanea, cosi come tendo, costantemente e sempre con maggiore certezza, a non vedere ostacoli né separazioni tra il patrimonio e l’attualità; un percorso di arricchimento per intuizione e per partecipazione elaborato non solo nella collocazione all’interno di un unico settore teologico. Anche questo volume testimonia con il suo processo di indagine e di conoscenza linguistico-visiva le relazioni tra il passato ed il presente, in un rapporto di continuità e unità; osserveremo che al patrimonio depositato si accede con la sensibilità propria del presente, mentre nella cultura contemporanea si incide attraverso gli strumenti di una attenta coscienza antropologica; un processo di creatività responsabile condotto attraverso le relazioni interconfessionali, muovendo dalla profondità storica di ognuna di esse, dalla più antica e mistica alla più moderna e analitica.
In questo clima complesso si sono posti in molti e con significativi risulatati; Rinaldo Invernizzi si è introdotto in questo percorso con una partecipazione diretta, a tratti indifesa e disarmante, forse con quella autenticità che nasce dalla disperazione, dalla condizione di partecipazione al dramma del Cristo; ad un percorso privato e profondamente umano, assolutamente autentico ha fatto seguito una crescita dell’esperienza artistica caratterizzata dalla verifica dei rapporti tra emozione, cultura e sistema linguistico.

Di Cristo o del Costato.

Percorriamo i vicoli di un piccolo Borgo che si distribuisce lungo la sponda del lago di Lugano; respiro l’aria tersa che scende dalle Alpi; percepisco il tepore che risale con il dono del silenzio dalle acque; tracce di umidità verdi e grigia pietra mi accompagnano verso la penombra in cui le ampie vetrine dello studio del pittore ancorano proteggono l’intenso bagliore dei rossi.
Colgo immediatamente alcuni fattori sui quali si fonda e si articola il sistema linguistico predisposto in questa fase espressiva da Invernizzi; mi colpisce la notevole e sistematica produzione su un costante formato tendente al quadrato; all’interno di ogni opera dialogano e tessono relazioni simboliche il gesto-segno e la materia cromatica.
La forma delle tele ed il loro forte ed insistito sistema di ripetizione iconografica, occupano e caratterizzano, invadono lo spazio; si apre un caleidoscopio di immagini che si inseguono, dove ogni nuova ‘immagine’ svela e rivela solo ed attraverso il frammento, come forma di apprendimento attraverso la porzione simbolica; la forma quadrata spinge ad una concentrazione della fruizione ed articola al suo interno il sistema linguistico di relazioni del racconto.
Risale al 2000 il torso d’uomo-tronco di una vita plasmata tra il vigore e la sofferenza; è un’opera ancora marcatamente figurativa ma è già il colore ad assumere attraverso valenze simboliche del legno, nel busto e nelle forme spezzate delle braccia, la severità di un dolore, di uno strazio simbolico, impresso con valore rappresentativo non del singolo ma dell’intera umanità ; si aggiungono i particolari più dolorosi attraverso il continuo gioco del segno che sottolinea e incide, delimita e restringe, ed una materia che si espande, ora fonte divina di luce o materia umana che soffre oscura.
L’impianto appare attraverso una presa di rapporto diretta, fortemente accentuata, in cui il “tronco” umano si afferma nella lettura , sembra esplodere all’interno dello spazio, si affaccia ed avanza quasi con aggressività sulla percezione, ma anche si trattiene dallo scavalcare e dal giungere nella nostra realtà; si tratta di una serie di particolari straordinari, tutti animati da una intensità toccante, che non perdona, che assilla. Un’opera che da questo ciclo del dolore estremo, risulta perfetta e definitiva, quasi posta a chiudere una stagione dell’umanità, una storia che dopo duemila anni non sembra cambiare, ne’ poter evolvere ma solo ripetersi sempre sotto le stesse forme e negli stessi sentimenti .
Gli sviluppi successivi subiscono una forte accelerata nella definizione dei valori espressivi, in cui la materia cromatica si arricchisce e si esalta, condivide uno stato di conflittualità e di contrasto; il dato del nero, bituminoso e inattraversabile, sembra in grado di definire i ristetti margini della realtà umana; il nero è forma di maggior dolore di quello dello stesso corpo offeso, essendo un “territorio” in cui il dolore non sembra in grado di penetrare, di essere compreso.
All’interno dello spazio di vita, materia e colore animano dialetticamente l’esistenza, l’essere e lo stare; i rossi si sono esteti sui marroni per cui la materia umana appare territorio e vita, energia che palpita e reagisce, combatte per la propria sopravvivenza; dal buio si affaccia un’autostrada di energia vitale come tronco e fiume, mentre le braccia-rami come affluenti si ricongiungono. Pochi fattori simbolici restano, appaiono, scompaiono in uno stretto dialogo di forme e di colori; sono le sottolineature del segno e l’estensione delle superfici, traccia dell’anatomia attraverso la gentilezza del rosa e la protezione casta di un lenzuolo in verde. Ancora particolari che si inseguono lungo la strada dell’astrazione più violenta e decisa; nasce e si impone una successione di forme e di colore ripetuto con insistenza, con una violenza racchiusa al proprio interno.

Il Calice

l’Oratorio di San Rocco vede addossata all’aula liturgica la galleria teologica del colore che si espande e si estende nello spazio di grandi pagine emozionanti; le due liturgie, della parola e dell’immagine si confrontano tra queste due aule permettendo e suggerendo momenti di riflessione ed attimi di partecipazione interiore.
A questo ciclo Invernizzi è giunto con la volontà di concentrare nell’intensità dell’icona di colore-materia il valore salvifico, la speranza di salvezza, l’apertura verso la vita, tra le sue gioie e la qualità dell’esperienza che in essa si consuma.
Grandi pale di rosso in estensione sempre pronto a uscire, a superare i limiti dello spazio; forme di materia cromatica che si impongono, che travalicano monumentali; rossi non più del dolore vorace ma rappresi nella materia che tutto invade e definisce, che compre e scalda; rossi che parlano di un calore concettuale, colti oltre l’umana esperienza ed estratti dalla cultura interna del fare dell’arte; rossi che si distribuiscono e si estendendono nel sistema delle forme; un rosso a tratti acceso dalla particolare incidenza della luce; rosso infine liberato dal segno, qui autonomo rispetto a ciò che sottolinea, che definisce e limita.
Un sistema espressivo nuovo per Invernizzi caratterizzato dal desiderio di estensione mentale dei valori cromatici ed a cui risponde anche l’impiego del giallo, inteso nelle sue specificità interiori e senza dipendenza simbolica diretta nella luce e nella simbologia della speranza; giallo che accende e sollecita, che invade ed esalta come traccia cometa. Il giallo materia che attraversa e conduce, che scavalca e travolge la staticità del tempo e dello spazio raccolto e racchiuso; giallo dipinto a grandi pennellate, che si estende nella materia dell’opera.
A piccoli tratti appaiono improvvisi ed ulteriori tasselli del percorso espressivo, le forme di azzurro e di bianco, dove la luce-colore sembra spaccare, tranciare di netto, la superficie monotona, avvolgente della materia.
Anche questo ciclo pittorico, forse con più intenzione astratta e valenza simbolico-concettuale, presenta la forza e le dimensioni teologico-liturgiche dell’arte sacra antica, si riporta con la sua staticità alla fissità monumentale delle origini più lontane nel tempo spirituale, ed ancora nel rigore della forza silenziosa dei grandi decori musivi, negli estesi cicli di mosaici tra absidi e catini paleocristiani, lungo le ampie pavimentazioni.
Si afferma con il Calice un ciclo pittorico che conferma nella volontà di fissità il suo maggior valore, che in se stessa si concentra, si sofferma e si stabilisce perché il pensiero dell’uomo viva l’esperienza della fede nella tensione della bellezza che dialoga.

La Croce.

Le pareti bianche della Villa si allargano attraverso un balcone di verde sulla distesa d’acqua del lago serrato tra le sponde alte della montagna; ancora il silenzio è ovattato nello spazio trattenuto dello studio di pittura in cui tutto il rosso con il giallo, ancora il dramma racchiuso e violento dell’umanità, accendono dall’interno ogni mia energia e forza.
Lo spirito del grande albero di Canfora ed Il sorriso di una piccola Maria stanno nella luce di un eterno bene.
Lo sguardo del pittore si porta rapidamente sul primo piano e configura il suo stato di partecipazione espressiva attraverso il particolare strutturale del supporto plastico della Croce romana, squadrata con il netto rigore dei piani frontali e laterali; in forma di particolare pittorico Invernizzi si attesta sull’apice che coglie la descrizione all’incontro tra i due distinti monoliti, tra verticalità ed orizzontalità; lo sguardo indaga, si sofferma, appunta analitico con brevi spostamenti dell’obbiettivo, documenta a poca distanza e consegna alla nostra visione partecipata il sistema di relazioni simboliche di uno spazio ormai abbandonato dal corpo, dall’umana sofferenza del dolore. Non un’opera dedicata alla Croce ma un ciclo di opere, di quadri che anche in questo caso si inseguono, che si affastellano, scandite lungo un processo creativo ed una fruizione condivisa; il singolo elaborato vive come frammento visivo di un racconto che si sofferma arricchendosi esperenzialmente sempre e continuativamente sulla stessa architettura, sul medesimo simbolo, sulla medesima materia cromatica.
Il rosso è legno di materia impastata, in cui la fibra si configura attraverso la presenza dei suoi simboli di vita; il rosso che sopravvenendosi rispetto al marrone sottostante, ricorda la fibra accesa dell’albero di ciliegio, mentre i suoi frutti suggeriscono la laccatura ortodossa; ancora il cotto rosso della civiltà popolare che nel sole vede la vita; così lungo le due traverse superiori e la testa del grande trave centrale si accende la rifrazione del sole e con esso la speranza.
Lungo il percorso espressivo di Invernizzi si contrappongono e si sommano pareti di dolore e monoliti di sangue, forze che si sommano e si articolano tra estensione e tensione, ma anche improvvisi ed estesi chiarori di luce contro cui si staglia severa la forma verticale dell’architettura ; il percorso dello sguardo trova ora mura invalicabili, poi riconosce suggestioni e suggerimenti di passaggio, a tratti indicazioni di fuga.
Ogni frammento di Croce ed ogni estesa superficie appare solcata nella materia uniforme del legno e del tramonto dalle relazioni tra luce e materia, tra estensione e grumi e rapprese bave che giungono alla severità del nero; ogni frammento-opera racconta del paesaggio interiore di un luogo simbolo, di un’architettura e delle sue forme e dell’esperienza che in essa è maturata giungendo ad essere simbolo di passione e di redenzione, di morte e di rinascita.

Il Sepolcro Aperto ed i Paesaggi della Resurrezione.

Lo sguardo percorre lo spazio bianco della Galleria d’Arte; un caleidoscopo si distribuisce impazzito nella vitrea fluorescenza del neon, quando i grigi come pareti di ferro scandiscono la nostra frequentazione notturna. Bagliori ritagliati irrompono per essere obbiettivo di speranza.
Un breve ciclo di opere di più raccolto formato è dedicato, in un clima policromo vivace, alla realtà di un Sepolcro Aperto, di uno spazio ‘liberato’ dalla condizione della morte e riconsegnato alla vita; è il colore che si fa spazio nel rigore ancora dell’architettura a suggerire la Sua rinascita, l’acquisizione di un nuovo stato, la frequentazione di una nuova condizione. Cosi come fu per il blu ad apparire nei brevi ritagli delle ultime Croci , nell’ospitalità avvolgente del Calice, in queste opere sono i gialli ed i verdi ad intervenire con particolare accensione e forza sia sul piano simbolico altro e con incidenza psicologica sulla percezione.
Con queste nuove opere, Invernizzi dimostra di aver ulteriormente maturato il suo sistema linguistico e di aver dato valore e significato concettuale al suo percorso d’indagine; il colore si fa forma autonoma, spazio individuale di massa e di superficie, geometria e materia, realtà fisica e testimonianza di una spiritualità che palpita, che vive, che vuole essere frequentata.
In particolare è la presenza anomala del rosa, poco istituzionale nella religiosità simbolica, a sancire questo passaggio di valori e di esperienza attraverso la cultura dell’arte.
I Paesaggi della Resurrezione sono racchiusi in un nuovo e intenso ciclo di quadrati di ferro-colore; ogni singolo paesaggio si afferma silenzioso dettagliato dalla severità dei grigi che si sommano, tra le superfici che si susseguono verso le brevi aperture notturne, tra il bagliore lunare e le rifrazioni di essa nello spazio infine ritagliato e divaricato del blu.
Non più l’urlo dei rossi e dei gialli, ma ancora il colore con valore specifico ed autonomo di se stesso rispetto alla realtà del racconto e della descrizione; si afferma una proliferazione di grigi posti da Invernizzi tra il cielo e la terra, predisposti lungo la successione prospettica dello sguardo, dettagliati nella singola massa uniforme; grigi che vivono una propria vita interna appena solcati dalla leggerezza, dalla trattenuta ma non timida presenza di sfumature rosa, verdi, viola e gialle; il verde, colore a piccoli tratti già presente nei precedenti cicli, qui si contamina con intento quasi naturalistico con il giallo e fluisce morbido a spegnere lo spessore inattraversabile del grigio metallico.
Pagine di ferro determinate dalla prospettiva intensa di una Resurrezione, di un percorso attraverso le nebulosità della materia cromatica, e dal raggiungimento di sua forma descritta e ritagliata nella luce; una successione policroma di piani paesaggistici ancora con la forza di muri invalicabili, di piani a cui lo sguardo deve piegarsi per raggiungere uno spazio di libertà, una realtà aperta e luminosa, verso una proiezione di speranza.
La “Resurrezione” di Rinaldo Invernizzi sta nel dialogo tra il blu che ospita il bianco, dove la luce si configura esperienza che a sua volta penetra all’interno del paesaggio, si riconduce salvifica lungo la successione dei piani e raggiunge il nostro sguardo, qualifica la nostra percezione visiva; un percorso della Resurrezione a ritroso rispetto al percorso da noi svolto con valore e forma dell’esperienza