Interni d’Artista
di Andrea B. Del Guercio
Edizione Essegi, 1993
Se si osserva l’atto quotidiano di appoggiare un plico, un cappello e dei guanti, od altra cosa, non si potrà non riconoscere, che in deroga al rispetto che si deve ad un’opera d’arte, qualora l’atto sia provocato da un’improvvisa fretta, anche una scultura assume eccezionalmente la funzione d’uso accanto a quella estetica che le è più propria; una condizione di funzionalità in ragione di una necessità soddisfatta nella quotidianità da un tavolo e da un attaccapanni ed occasionalmente anche da un diverso manufatto plastico quale è una scultura.
Il semplice atto dell’appoggiare ha rivelato la presenza di un terreno di confluenza funzionale, seppure occasionale ed irrispettosa tra due prodotti, il manufatto del design e quello dell’artista, che pure nascono e si sviluppano attraverso processi ed intenzioni distanti, se il primo si qualifica sin dall’origine sul piano della funzionalità e solo in seconda battuta, con una variabile ampia, riceve l’impronta estetica, il secondo è investito completamente e totalmente da volontà estetico creativa, e solo il caso apporta un dato funzionale, alla base dei due soggetti si pongono due processi intercambiabili ma diversamente calcolabili sul piano del tasso di incidenza.
L’attenzione ai significati di un gesto ed alle sue conseguenze ha una sua influenza nel progetto culturale di “Interni d’Artista”, introduce cioé una qualificata componente reale a quei processi critici che approfondiscono l’incidenza nell’attualità di quel complesso di esperienze introdotte in particolar modo da Pablo Picasso e Marcel Duchamp e che possiamo sinteticamente riassumere nel superamento di steccati tra i settori ed i generi, nel confluire aperto tra pittura e scultura, riqualificazione di una prassi espressiva interdisciplinare e poli materica, poli linguistica. Valga in quest’ottica quale dato specifico di riferimento il significato problematico rappresentato dai processi di “riciclaggio” e “riutilizzo” o readymade di un manubrio di bicicletta per Picasso, di uno scolabottiglie per Duchamp.
Il percorso espositivo di “Interni d’Artista” ha seguito una tradizione conslidata per Monteciccardo, tesa a favorire le relazioni tra le opere, il confronto contro l’isolamento, il confronto attivo contro separatezze ed ascetticità museali.
Manufatti, oggetti di design e sculture, coinvolte nel confronto costruttivo di habitat febbrili, per cui ogni locale diventa spazio agibile, da un pubblico coinvolto nell’impiego diretto secondo un attraversamento con soste.
Rimangono, come anticipazioni, installazioni a carattere permanente di Renzogallo, Minkoff, ma più specificatamente per il nostro tema, l’intervento di Nagasawa caratterizzato dal reimpiego delle originarie travi del tetto del Convento e grandi ciotoli, che per una lunghezza di 15 metri hanno assunto, ormai nell’uso consolidato negli anni, la funzione di appoggio per i visitatori; in un clima diverso per caratteri ed intenzioni è l’elaborato archeologico di Claudio Costa redatto intorno ad uno dei pozzi per la conservazione del ghiaccio e segnato in particolar modo da piccoli flaconi e bottiglie così come da altri materiali, tutti rintracciati in loco.
All’interno del percorso espositivo ha assunto particolare ruolo, con valore emblematico per la complessa e storicizzata materia in oggetto e per specifici e qualificati valori, una sala monografica dedicata a Lapo Binazzi. L’esposizione copre oltre un ventennio d’attività ed osserva nel tema dell’illuminazione una costante espressiva con moltiplicazione di soluzioni e di valori culturali, di aree tematiche e tecniche di produzione.
Si avvete lungo questa carrellata di oggetti, sia le origini che i passaggi e gli sviluppi, la persistenza di contenuti che furono nella stagione racchiusi nel dibattito teorico e progettuale definito dell’Architettura Radicale di cui Binazzi fu tra gli artefici più originali; una stagione a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70 che si poneva in consonanza diretta ed attiva con una cultura fondata sulla più ampia ed interdisciplinare tra aree espressive, di comunicazione visiva e tra problematiche dedicate all’uomo, alla sua storia ed al suo presente, e quindi al pianeta, ai suoi paesaggi mutevoli ed alle sue geografie. In quest’ottica anche l’oggetto di illuminazione, così come è avvenuto per le diverse componenti di arredo, dalla libreria al divano, dai piatti decorati alle stoffe, risulta rispondere ad un processo di spostamento, di dislocazione tra’esterno’ ed’interno’, da dato del paesaggio collettivo a spazio privato, ad un habitat individuale.
Alla luce di queste premesse si dovranno osservare gli oggetti e l’habitat di insediamento di questi, anche se questo intervento critico dovrà isolare, separare, per correttezza d’indagine.
Archeologia, come rivisitazione interpretativa, risulta una scultura in marmo collocabile tra il piccolo altare ed un oggetto di seduta di Maria Dompè, da tempo attenta alla congiunzione nella contemporameità della essenza significativa della romanità, sia nelle strutture formali, che nei materiali come appunto il marmo e il travertino. Antichi nel titolo sono i “Papiri” in rame di Sergio Calatroni ma per il carattere sinuoso, filiforme e manipolatorio del materiale segnano per mobilità lo spazio abitato.
Aldo Runfola ha lavorato invece su i due poli estremi racchiusi nel termine omnicomprensivo di armadio, dove il primo si compone di una decina di buste di plastica di diversa misura in relazione all’oggetto da contenere e che quindi si auto dichiara per trasparenza, mentre il secondo si architetta per una sessantina di scatole di cartone di media grandezza e tutte anonimamente uguali, quindi con valore di mimetizzazione.
Su un piano di costruttività plastica si collocano i moduli rigorosi di Nicola Carrino, “Costruttivo 1/69c” del 1965, contemporaneamente monumentali e progettuali, ma soprattutto in grado oggi, a distanza di anni dal loro concepimento ed in questo contesto, caratterizzatisi per funzione d’uso; la presenza di queste opere di Carrino ci permette sul piano teorico di invertire il percorso che Marcel Duchamp fece fare ad uno scolabottiglie, dove nel nostro caso l’opera d’arte muove dal valore estetico verso la funzione d’uso, perde il valore sovrastrutturale a favore di quello strutturale, da cui conseguono possibili differenze anche di tipo economico.
I due termini del discorso si confrontano nell’operazione di Ron Arad, quando una scultura, un anello avvolgente in acciaio, ingloba una sedia anonimamente industriale; in questo caso si osserverà la perfetta integrazione tra le due componenti, sia sul piano della qualità estetica che della funzione d’uso.
Il tavolo di Antonio Paradiso, oltre che per i suoi specifici valori espressivi assume in questo contesto il termine emblematico della semplicità ed essenzialità nel processo di redazione dell’opera e della predisposizione ad un impiego; si tratta infatti di sistemare un piano di cristallo corretto nelle dimenxioni e negli spessori, al di sopra di quel libro di pietra di Trani, di una scultura testimone nella struttura e nelle incisioni della tensione antropologico plastica del grande artista pugliese. Una sensibilità tesa e lucida sul piano di un raffinato languore si pone all’origine dell’habitat realizzato da Tomas Kuhn, una francescana cella con una semplice rete ed una sedia dove i due oggetti sono avvolti da una nebulosità di luce e di materia.
Gli ampi corridoi luminosi che al primo piano ripercorrono il tracciato del chiostro vedono in successione, con stimolanti sovrapposizioni il bronzo di Calatroni, lo spazio disegnato di Gori, la circolare libreria di Sirera Leon, il tavolo verde di Maurizio Cattelan ed ancora la grande scultura in acciaio di Fontanesi i cui due piani non possono non suggerire, nel nostro discorso gli appoggi di una libreria, il magico piano d’appoggio di Golba e l’avvolgente poltrona di Alfredo Pesce realizzata sfruttando la modularità ed il valore simbolico dei contenitori dell’acqua minerale da un litro e mezzo.
Risulterà quindi sufficente in questo nostro viaggio nella mostra ipotizzare e quindi collocare alcuni piani di vetro all’interno della video scultura di Maurizio Camerani, costruita per strutture rigorose per ottenere ancora una funzionale libreria da parete; cosi si è trattato di saldare in elevazione tutti gli anelli di una catena, o far attraversare un tubicino di tre metri dal filo elettrico per veder realizzata una lampada di Franz West; ed ancora una lastra d’acciaio specchiante tagliata dalla rigorosa sensibilità di Maurizio Goldoni per essere piccolo tavolo posto di fronte al collage pittorico di Adriano Altamira; poliòaterici epolifunzionali, tra video e lettura tra comunicazione e percezione si collocano gli oggetti di una progettualità concettuale di Agnoletto e Rusconi ed in un clima neo dadaista le diverse lampade di Rino Vardaro.
In un clima di classicità solare si col loca la sala da pranzo di Ugo Marano in forma di avvolgente gazebo rigoroso e severo nella linearità del ferro e prezioso nelle porzioni in mosaico, nella ceramica, negli apparati decorativi, mentre una precarietà povera, una casualità, raffinata tra pietra, legno e piani di vetro caratterizzano l’oggetto di Danny Lane.
Esemplare per rigore e nella coniugazione tra componente estetica, nella ricerca plastica e funzione d’uso a carattere allargato, risulta la grande scultura panchina, titolata “Balestra”, di Gabriele Giorgi; si tratta di un oggetto, oggi acquisito dalla città di Reggio Emilia, predisposto per esterno, per un’area a verde pubblico, ed utilizzabile in forma di gioco. In un clima plastico forte si colloca anche la grande scultura di Lo Pinto in ferro e marmo e le architetture minimal della Solano, mentre Pistoletto si linita a disegnare la struttura lineare, essenziale di un armadio.
L’ironia, il gioco, una componente di sdrammaizzazione è il risultato della presenza di Aldo Mondino e di Sandro Chia, del primo il tappeto policromo redatto su una superficie di truciolare e del secondo una pesante sedia di vangoghiana memoria ed un tavolo.
Nel percorso espositivo la presenza di Alik Cavaliere risulta completamente autonoma, in quanto intervento nato sul posto, organizzato coinvolgendo in diverso modo parte della popolazione locale; Cavaliere non ha infatti proposto una dei suoi bronzi, ma ha ricostruito un habitat, più esattamente una cucina, rintracciando presso un vicino tavolo, quattro sedie, una credenza, coordinate nello stile del primissimo dopoguerra, ormai abbandonati da tempo e così ritornati ad una nuova funzione attiva in un clima di design popolare e country; l’artita ha quindi invitato alcuni amici in questa riedita cucina per gustare un maturo cocomero, riconsegnando all’habitat interamente le sue originarie funzioni.
L’intero percorso espositivo che abbiamo riattraversato ha visto la presenza, stanza per stanza, ambiente per ambiente, di coppie, quali immaginari padroni di casa, ospitali amici fotografati da Maria Mulas.
L’Esposizione “Interni d’Artista” ha offerto l’occasione per un viaggio attivo, con fasi di fruizione come partecipazione e utilizzo coordinato erano giornalmente presenti quotidiani settimanali, libri per la lettura e libero era l’accesso ad una serie di frigoriferi con bibite e frutta funzionale di una nuova e diversificata cultura abitativa. In parallelo con le problematiche, i fatti propositivi e di ricerca di un diverso design, si è anche ripercorso l’arco ampio della cultura artistico visiva contemporanea; si è potuto direttamente constatare la presenza, l’incidenza costruttiva di esperienze linguistiche, tra interazione e conflittualità dei generi, e quindi constatare le profonde differenze di significato e di valore culturale. Un paesaggio espressivo complesso, che osserva tendenze costruttiviste e minimal, tutti gli sviluppi di radici Pop tra citazione colta e soluzioni nazional popolari, fino ad una progettualità ad ampio spettro, sia in forma di indagine e sperimentazione ma anche diretta conseguenza della stagione concettuale.