Immagini per una storia – Massa e il suo marmo
di Andrea B. Del Guercio
1982
I primi pensieri e le prime ipotesi per iniziare una nuova indagine sulle diverse componenti che circondano e si possono riconoscere oggi nel percorso di estrazione e lavorazione del marmo nacquero tra di noi in maniera libera e immediata durante una casuale passeggiata nel vasto piazzale di una delle tante segherie che operano intorno a Massa. Alla prima curiosità per una realtà industriale così poco nota a entrambi si sostituì ben presto una vivace attenzione per quei blocchi ordinatamente raccolti e in procinto di scivolare sotto gli inarrestabili denti delle seghe, sotto lo scrosciare dell’acqua e nel lugubre e instancabile sofferto stridore di quelle macchine; osservammo in quella materia gli enigmatici segni dell’uomo e le infinite tracce che stanno come ferite su un corpo di cui si è persa ogni qualsiasi parvenza di identità. Le emozioni inaspettate che suoni, colori, architetture di masse compatte e ormai ridotte a lastre produssero su di noi in quella breve passeggiata primaverile, ci riportarono in più occasioni sul « luogo del delitto » con la sempre più chiara volontà di approfondirne in uno specifico ciclo l’analisi. L’interesse e la disponibilità dell’Amministrazione comunale di Massa a riindagare e riinventare per la mano creativa di un artista la storia ed il percorso di lavorazione del marmo, quale risorsa primaria di questa area geografica, hanno reso concreta quella percezione casuale ma intensa di segni, tracce, ferite, ricordi antichi.
La provenienza di Salvatore Mazza da un linguaggio pittorico appreso autodidatticamente, il che ha forse comportato una più libera indipendenza nell’uso dei mezzi e dei linguaggi espressivi, è il primo dato utile per intraprendere una corretta indagine del lavoro presente e di quello immediatamente alle spalle e ancora utile all’intenzione di avvertire la metodologia di indagine e la poetica complessiva di questo artista.
Quella prima esperienza pittorica con forme di cultura metafisica e dechirichiana si riporta con spirito e atteggiamento assai simile nell’indagine condotta con il mezzo fotografico a partire dal 1975 in un paesaggio di oggetti recuperati secondo una casualità che potesse permettere la promozione di un clima carico di impalpabile mistero, di un languido ma trattenuto sentimento. Il clima di questi lavori è certamente metafisico, ma corretto nella direzione intima e trepidante di Morandi, per cui gli oggetti e le loro ombre si uniformano come sagome impalpabili e si rifrangono e si ripetono all’infinito e in tutte le direzioni. Un velo leggero tra il seppia e il marrone, frammezzato da bruciature e ombre come di carta increspata, avvalora le morandiane emozioni e ci riporta alla memoria le prime incerte lastre impressionate da Niepce e in particolare la Natura morta del 1822. Il ritocco a mano di queste prime opere è anch’esso, come la composizione ripetizione, un fatto estremamente importante nel risultato finale, per cui ogni fotogramma si rileva come un brano o un frammento di uno sguardo lontano nel tempo ed impressosi per incomprensibili fatti nella memoria. A volte il ricordo è direttamente concepito e sottolineato in un frammento di vita quotidiana mentre a volte nasce dall’aggressione di uno o più frammenti nel magazzino della memoria e assume forme e propone reinterpretazioni enigmatiche.
Narciso del 1975. Tornando alla comunicazione fotografica di Mazza credo che questa prima piccola serie di immagini, pur caratterizzata da una certa ingenuità di costruzione, possa raccogliere già i termini di una metodologia linguistica che cerca e scava nelle ambiguità della realtà umana, cioè che non si accontenta più di una visione analitica del dato pur essendo ancora una sequenza « oggettiva », ma che nel titolo segnala di qualche cosa che vuole appunto andare oltre il certo, con le presunzioni che esso conduce storicamente seco, per invischiarsi nelle forzature e nelle accentuazioni così come nelle più enigmatiche abbreviazioni e riduzioni. E in questo primo caso questi due estremi sembrano già combaciare per cui possiamo riconoscere contemporaneamente lo spazio della forzatura nel trucco e nella collocazione provocatoria dei soggetti e la povertà riduttiva del fatto raccontato, nello squallore delle magliette di lana a carne, nel semplice specchietto e negli sguardi propri di un clima di sottoproletariato urbano e di componenza meridionale.
Il riposo genera sapienza del 1976. La sinteticità in questo piccolo ciclo viene a essere il dato caratterizzante rispetto ad altre esperienze comportamentali, sebbene qui più che altrove si accentui un rapporto di contraddittorietà con il titolo che nel caso segnala nel termine « sapienza » una notevole vastità di dati e di indicazioni di memoria. La concettualità del `tema e i meccanismi linguistici con cui esso è affrontato si associa evidentemente, in un periodo che era di ricerca e studio per Mazza, al diffuso linguaggio della conceptual art per la quale tentativi diffusi di comunicazione enigmatica non sempre si dimostravano sufficientemente incisivi sul piano del risultato visivo e dovevano ricorrere anche nei casi più qualificati a farraginose introduzioni con le più varie specificazioni e qualifiche. Così in questo frangente anche Mazza subisce tali meccanismi espressivi, tipici di anni ed esperienze rapprese e ben poco disponibili a un dialogo articolato con le varie e diverse componenti e soluzioni formali che affollano temi universali. Una situazione” che negli interventi ulteriori è stata corretta con l’assunzione di dati teatrali e gestuali, musicali e cromatici in grande quantità.
Il problema in ogni caso di questo ciclo mi sembra riconducibile ad un clima di ricordo intessuto di dati letterari, da Proust a tutta la cultura di memoria, che roteano intorno a certi spazi quotidiani ricuperati dopo lunghe assenze e che si ricordano sotto forma di lungo riposo negli oggetti che ci vivono intorno. In quell’isolamento simile a un riposo vive l’idea di una sostituzione rigeneratrice con l’oggetto da parte dell’uomo coinvolto con eccessiva e superficiale accelerazione nei fatti della vita contemporanea. Allora nello stato di malessere e nell’esigenza di fuga riparatoria ha spazio insieme alle infinite umane dimostrazioni anche quell’iniziale accentuata e frustrante ermeticità espressiva.
Aggressione del 1978. Rispetto a questo breve percorso tra le esperienze fotografico progettuali vorrei ancora segnalare quattro tele emulsionate, che definitivamente segnalano la volontà di Mazza di indirizzare la propria creatività verso stimolazioni teatrali e gestuali, libere dalle interferenze di un linguaggio strettamente fotografico che pure rimane con le sue caratteristiche, il momento primo tra gli strumenti di ricerca. Sintomatica di questo anche la serie America ed altre cose, trasportata con un fotogramma anche in serigrafia, che pur mostrando limiti di incisività ed aggressione, con la ripetizione fotografica di un sempre uguale soggetto, la mano pistola e la bandiera USA, riesce nel risultato finale a non scivolare su drammatizzazioni e retoriche denunce.
Adorazione del 1977. Con questo ciclo Mazza si porta sul tema delle forme popolari di religiosità e culto ancora diffuse in Calabria e a cui l’artista ha dedicato anche una ulteriore rivisitazione con la performance Mitico Rituale nel 1980 e Lamento funebre nel 1981. Una materia assai cara a Mazza e ripetutamente ristudiata e affrontata in varie sedi espositive, e alla quale giustamente Luciano Caruso in un suo testo recente attribuisce il ruolo di superamento « dell’azione più o meno estetica, più o meno fine a se stessa» e apre alla «possibilità di caricarsi di valenze sociali», e di quelle autentiche memorie collettive che appunto sono racchiuse nei riti popolari sopravvissuti nei secoli.
Anche in questo caso il dato della ripetizione viene usato da Mazza nel ruolo che potremmo definire della didascalia visiva con valore di congiunzione tra i diversi passi del racconto. Scompare rispetto ad altré occasioni quell’uniformità che assoluta si era attuata tra soggetto e oggetto all’interno dell’opera per cui in questo caso la fissità dell’oggetto d’indagine ideale, l’adorazione rappresentata dal valore devozionale delle candele accese con ruolo di sottolineatura mnemonica, ha permesso all’operatore la catalogazione delle diverse e possibili forme oggettuali simboliche, ambientali e gestuali proprie del culto religioso nella popolazione meridionale.
Ed ecco il sorgere in ogni casa, nella forma di piccoli altari, di collezioni di ex voto dipinti e incorniciati semplicemente, riproduzioni un po’ sbiadite di volti di santi e di madonne e ancora ovunque sparse tante fotografie di parenti e amici dispersi nel mondo per le leggi spietate dell’economia.
Interventi su fotografia 1979, 1980, 1981. Sotto il titolo Interventi su fotografia si raccoglie la più grande parte e in fondo quella centrale e decisiva del lavoro di Salvatore Mazza che pure è ampiamente raccolta nella Monografia edita sotto gli auspici del Comune di Massa nella passata stagione.
Ho avuto modo di intervenire su questo vasto nucleo di lavori in varie occasioni e a partire dal ciclo dedicato agli aspetti aspri della condizione operaia nell’industria tessile pratese. La presenza costante e ripetuta dello stesso fotogramma e di una didascalia ora sotto forma di breve ma incisiva ed enigmatica frase dichiarazione era insieme un passo nuovo e carico di valenze culturali e ideologiche che legai alle mie ricerche su Walter Benjamin e in particolare ai saggi dedicati alla fotografia e ai diversi problemi prodotti dai meccanismi di riproducibilità. Inserendo nella mia indagine le ricerche di Mazza scoprimmo insieme per un verso l’inconsistenza di una denuncia puramente fotografica e riproduttiva della realtà: « meno che mai una semplice restituzione della realtà dice qualcosa sopra la realtà. Una fotografia delle officine Krupp e AEG non dice quasi nulla in merito a quelle istituzioni » (riprendendo da Brecht), e altresì verificammo l’importanza di arricchire l’immagine fotografica, facile preda per lo stravolgimento del suo critico messaggio, di un diverso supporto linguistico che nel caso prese forma di scrittura con caratteristiche di pittura gestuale. Allora il risultato delle ricerche e delle combinazioni linguistiche fu lo sviluppo contemporaneo sull’opera di un’accelerazione assillante dell’immagine « campione » meccanicamente simile al gesto dell’operaio e la sottostante presenza assillante della didascalia benjaminiana nel ruolo di consolidamento delle soprastanti accentuazioni psico sociologiche. II doppio meccanismo di ripetizione consolida il carico di tensione psicologica dell’opera muro, verticale e impenetrabile, silenziosa e inquietante.
Se in questa sede si è convenuto di documentare retrospettivamente i diversi cicli fotografici di Mazza credo in ogni caso utile ricordare, nel curriculum artistico di questo autore, le esperienze e forme di comunicazione progettuale iniziate con sempre più netta autonomia e padronanza a partire dal 1978. L’affermazione di una comunicazione gestuale può essere osservata nell’azione Il gesto è un linguaggio appunto del 1978 ancora direttamente posta in relazione alle opere fotografiche sempre di quegli anni. II titolo comune tra azione e quadri è chiara spia di una evoluzione e diversificazione nei meccanismi d’espressione per cui negli anni tra 1980 e 1982 a nuove manifestazioni progettuali quali Lettura d’ambiente (d. 15 min.), Identificazione (d. 15 min.) e Mitico rituale (d. 25 min.), nel quale esemplarmente mi sembra si combinino momenti di gestualità, sonorità, ambientazioni e scenografie, atti e testimonianze realmente tratte da antiche pratiche magico religiose ancora vive nelle popolazioni meridionali, il tutto orchestrato in una incisiva coreografia di tipo teatrale. Seguono le azioni Lamento funebre (d. 50 min.), Ricordi Amalik (d. 50 min.) a cui si aggiunge in occasione di questo ciclo con soggetto il marmo un nuovo intervento dal titolo Terra bianca nel quale si rafforza la caratterizzazione teatrale con la esclusiva presenza di un gruppo di mimi e ballerini ai quali Mazza sottopone una precisa coreografia. Questa precisata coscienza espressiva mi sembra un dato importante nel percorso di Mazza e che attende
Con questa mostra e con questo catalogo vogliamo narrare dell’incontro tra un artista e una porzione della terra.
Ovunque una « parete », ora una montagna o una lastra tagliente, ora un’architettura ordinata o un torrente minaccioso, su cui si arresta l’occhio fotografico di Mazza, attento a riconoscere e a promuovere in ogni attimo lo spazio della « riflessione ». L’intenzione dell’artista è infatti quella di trovare un’area e un ambito controllabile con l’obiettivo su cui poter sviluppare un lavoro di « contemplazione »: il silenzio dei grigi, le accensioni dei bianchi, pietà per le ferite, emozioni di pelle nelle impalpabili velature, la solitudine dei ferri di tortura. Così dall’immagine completa di una cava al particolare di un blocco già predisposto a essere trasferito alle segherie si ricava la sensazione di un’unità di indagine che a sua volta rispetta l’uniformità di questa situazione nell’unità della luce, nell’organizzazione di un nuovo paesaggio condotta dall’uomo senza alcun rispetto dell’habitat naturale originario, ed ancora la predisposizione a condizionare l’unità poetica delle nostre emozioni per cui tutto è colto in un completo silenzio ed abbandono da parte dell’uomo, più utile a farci anche intendere le condizioni di lavoro e esistenza. Così anche la dura attività dell’operaio in cava si riconosce solo ad una lettura che sia attenta e sensibile delle diverse immagini; per cui del cavatore restano quali severi testimoni i semplici ed antichi strumenti delle sue mansioni: montagne aggredite con scale di corda tra rigagnoli d’acque fredde, picche, pale e sbarre ed un intrecciar di fili che avvolgono in un estenuante sibilo pareti ed intere scalinate di marmo.
Il paesaggio così spogliato della diretta presenza umana diventa il luogo del lavoro senza retorica mentre da una lettura carica di poesia affiorano i drammi che in esso si consumano ed i conflitti che qui si dibattono.
Lastre di marmo e spezzoni minacciosi sovrastano in vari punti della cava la nostra curiosità ed anche il nostro equilibrio è ovunque precario, mentre passiamo da un piano liscio come il vetro, e su cui magari d’inverno si stende un’invisibile stra= to di ghiaccio, a sentieri che ovunque sono franosi ed a picco sulla valle lontana; quando poi tira il vento e piove, i ripari sono inevitabilmente rari su un fronte sempre in movimento mentre nell’estate la luce del sole si infiamma micidiale per gli occhi su quel bianco intenso come la neve.
Ovunque le macchine faticano aggredendo la materia, spesso è la ruggine a segnalare per chi osserva da lontano un punto operativo, i camion carichi forse oltre le loro possibilità non hanno neanche lo spazio per girarsi o curvare e li vedi spesso scendere in retromarcia. Attimi di terrore e stato di perenne insicurezza per questi uomini e per chi si arrampica su queste montagne affascinanti mentre alle spalle subito appare l’intenso colore del mare.
Il meccanismo di indagine e d’espressione condotto da Mazza qui come in molta parte della sua attività mi sembra così intelligentemente teso ad accentuare i soli conflitti segreti della realtà e ad attenuarne le più evidenti accensioni; un movimento che tende ad amalgamare senza appiattire né sublimare e a dar spazio ai suoi riservati sentimenti e giudizi. Ed ecco la poetica attenzione di Mazza per i tagli inferti alla roccia, le sbavature sanguinolente della ruggine sul bianco candido; ancora, forme di città lontane nel tempo, abbandonate dai loro antichi abitanti e poi chiuse ermeticamente alla nostra curiosità profanatrice; poi il marmo, con la sua solidità, la sua autenticità, un’impossibile penetrazione, un’ermetica presenza per infiniti spazi nelle bianche viscere; e sono specchi riflettenti di un giorno di sole e grigie lapidi in un freddo giorno d’inverno.
La lavorazione in segheria.
Chi ben conosce e chi capita per caso in una segheria di marmo credo ne ricavi sempre contrastanti emozioni che si muovono dalla fissità e solidità dei blocchi accatastati nei vasti piazzali allo spettacolo frastornante che proviene dalle allineate caselle nelle quali si «squartano» con metodici movimenti carcasse compatte come antichi eroi e ridotte a sottili ostie per le abitudini e le comodità dell’uomo. Ai marmi bianchi delle Apuane qui si aggiungono quelli colorati con le infinite qualità dei graniti e di altre pietre provenienti dalle più lontane aree geografiche, per cui inevitabilmente si intersecano blocchi con autonome caratteristiche di taglio e sagomatura, si accentuano i contrasti di luce e di colore. Il risultato è lo stravolgimento della fissità e unità consolidata delle architetture in cava ed il passaggio ad una lettura per singola realtà quasi ci si trovasse di fronte ad un’opera di scultura. L’indagine passa da inquadrature d’insieme con relativi particolari, quindi simbolici dell’intero complesso, al singolo blocco ed alle sue diverse e varie caratteristiche, per cui le possibilità di fare sempre nuove scoperte tra le forme, i colori ed i segni dell’uomo si fanno infinite. L’individuazione del particolare e la sua accumulazione in un ciclo dimostra di essere come nel passato il dato ed il meccanismo linguistico prescelto da Mazza e più utile all’esplicazione del suo messaggio. La sensibilità dimostrata nella lettura delle varie componenti presenti nella cava è qui infatti riportata ed accresciuta.
Le ombre dei tagli e delle fratture, le macchie di grasso, di umido e quelle prodottesi nei passaggi e nei trasporti, le accensioni luminose della stessa materia sono alcuni tra i tanti dati raccolti e raccontati da queste immagini. Ma il percorso del blocco e la sua storia, che la raccolta di questi particolari narra, raggiunge nel momento in cui passa alla lavorazione vera e propria sotto le numerose lame delle seghe, uno dei momenti più intensi e drammatici. L’assenza dell’uomo in questo caso è utile a indirizzare l’attenzione del lettore sul conflitto durissimo tra la materia e la macchina.
Il rumore è assordante e un ritmo inarrestabile e assillante si ripercuote sfalsato da tutte le celle e su tutto il piazzale della fabbrica e nei campi e tra le abitazioni circostanti. Il coinvolgimento collettivo ne risulta inevitabile. 1 lunghi e possenti bracci muovono instancabili le seghe sulle quali scroscia perenne una pioggia che richiama alla memoria immagini dantesche. Eppure anche in questo caso, cioè di fronte ad uno spettacolo particolarmente violento, la sensibilità di Mazza lo porta ad evitare la trascrizione e la sottolineatura di quelle accenzioni per favorire momenti più delicati quali la patinatura delle lastre su cui si posano le mani dell’uomo colte quasi ad accarezzare, quasi a sorreggere ed accompagnare questi strati di pelle strappati con violenza dal corpo possente della montagna.
Adesso i particolari ci mostrano una materia nuova, limpida nelle superfici e netta negli angoli, logica nelle forme, astratta ed enigmatica in un clima di livido silenzio. Tra queste pareti e nella perfetta identità di ogni sagoma sembra ormai scomparsa ogni forma di vita e di storia. Gli imballaggi rispondono e aggiungono a questa fredda emozione la loro carceriera regolarità mentre poche ed incomprensibili tracce e scritte dell’uomo chiudono definitivamente la storia naturale di questa affascinante componente della terra.
Così anche in questo ultimo settore del percorso di indagine ed interpretazione Salvatore Mazza si è dimostrato fedele alla sua poetica e al suo linguaggio e il risultato dimostra del suo stare dalla giusta parte e in maniera matura e civile. Mazza ha operato senza estremizzare ma verificando sempre tutto sulla sua umanità e forse così è riuscito a rendere anche un personale e sincero omaggio a un’attività dell’uomo e a una storia della terra.