Franco Miozzo
Andrea B. Del Guercio
Firenze, giugno 1985
Entrando nello studio di Franco Miozzo, così come era avvenuto in anni a dietro con lo scultore Guido Guidi ed il pittore Arturo Puliti nella vicina Forte dei Marmi, di cui curavo l’Esposizione Antologica e la corrispondente Monografia, ho avuto chiaramente conferma di una vitalità creativa che faceva tesoro delle testimonianze stimolanti condotte dalla presenza numerosa di questi artisti che hanno dato il rinnovamento dei linguaggi artistico visivi contemporanei, che si erano aperti e si confrontavano con i movimenti d’avanguardia, ne tentavano l’appropriazione arricchendola di individuale sensibilità. Questa terra, la Versilia, ha indubbiamente la prerogativa rispetto ad aree geografiche prive di un reale centro metropolitano, di essere stata frequentata produttivamente da intellettuali determinanti per la storia culturale moderna e contemporanea, e quindi di essere risultata stimolante al pari di grandi centri per quegli operatori sensibili e coraggiosamente intelligenti che qui sono nati o vi hanno sempre vissuto. Un terreno quindi favorevole per la privata preparazione, per l’informazione, l’acquisizione delle nuove ricerche e delle nuove proposte estetiche, ma anche fatto di grandi incomprensioni e lunghe solitudini a causa di una collettiva e popolare sotto cultura, post macchiaiola per i pittori ed accademico cimiteriale per la scultura. Così negli studi di alcuni artisti più attenti e vivaci ho trovato tutto intero un materiale accumulatosi negli anni, fatto di grandi opere e numerosissimi appunti, suggestioni e progetti, che da tempo non vedono la luce delle gallerie, ascoltano i giudizi dei critici, ed affrontano gli spazi nuovi delle collezioni private. Esaurito il decennio «effimero e mostrista» si vanno valutando i danni apportati dalla brutale chiusura delle grandi mostre periodiche, Triennale, Quadriennale, Biennale del Fiorino, e dalla riforma sempre più «protagonistica» imposta alla Biennale veneziana, danni che hanno significato l’oblio per l’attività costantemente importante, di numerosissimi operatori e quindi la presentazione di un paesaggio artistico nazionale improvvisamente povero, privo di una sua storica vitalità.
L’attenzione che con questa Mostra ma su prattutto con la Monografia che ne raccoglie l’articolato percorso, si rivolge all’arte di Franco Miozzo mi sembra una giusta correzione di politica culturale, anche rispetto alla dispersione di energie economiche e culturali avvenute nel recente passato ed a causa delle quali, per rimanere all’area apuo versiliese, è mancata la strutturale messa a fuoco del problema storico della scultura, della sua conservazione e del suo scientifico studio. Oggi infatti si avverte in tutta la sua impellente gravità, la mancanza di una sede istituzionale di raccordo per le numerosissime esperienze artistiche che, oggi, sappiamo hanno fatto gran parte della Storia della Scultura.
L’avventura creativa di Franco Miozzo
La Monografia raccoglie oltre cinquant’anni di pittura e di scultura sin dalle opere giovanili redatte nel primo soggiorno a Pietrasanta che quelle del lungo periodo romano per giungere progressivamente all’insistito ciclo del «San Martino» per la scultura ed ai grandi quadri «popolari»
Risulterà da questo percorso, un artista che non si è mai accontentato dei risultati di volta in volta conseguiti, ma che ha sempre saputo porsi in discussione e con intelligenza operare tra il momento dell’informazione e la propria interiore fantasia. Una creatività caparbia dalla quale sono risultati frutti diversi, non sempre della stessa intesità o qualità, ma sempre ed in ogni caso autentici. D’altra parte dai suoi ricordi risalta una profonda umiltà nel confronto con i Maestri, da Arturo Martini nell’incontro a Vicenza ed in quello a Roma, a Moore nei laboratori dell’Hanraux, dalla lezione sperimentale dei Corsi in una Biennale a quella ricca di vitalissima curiosità di Cagli a Forte dei Marmi, ed ancora con Carrà, Lipschitz e Vedova, solo per citare alcuni incontri culturalmente ed umanamente fondamentali.
Dalla lettura delle opere giovanili risulta subito evidente la perfetta conoscenza delle dure leggi della scultura ed in particolar modo nella lavorazione del marmo secondo accademiche tipiche del triste Ventennio; eppure anche nella staticità di quelle leggi Miozzo dimostra subito il desiderio di dar corpo a fremiti ed emozioni interiori, difficilmente descrivibili figurativamente. Nel decennio 1930/40 si assiste ad una lenta ma chiara volontà di uscita dai canoni ferrei della retorica fascista che, muovendo le timide e forse inconscie trasgressioni compositive, si qualifica progressivamente nell’intera anatomia di un corpo ed ancora nella costruzione delle masse, è il caso di «Berta» del ’38 e «Paradiso terrestre» del ’48. Ma è degli anni ’50 la svolta in senso sempre più astratta di Miozzo scultore con predilezione per masse materiche compatte, animate sinuosamente all’interno, secondo una personale ricezione delle lezioni di Moore; la difficoltà di giungere all’esatta datazione di ogni pezzo ci costringe a citazioni di massima che comunque hanno valore del clima generale di creatività dell’artista: da «Omaggio a Michelangelo» a «Cavallo», «Icaro», e un «San Martino» bronzeo sicuramente del ’59. Sono questi lavori che l’artista ancora redige tenendo ad una responsabile compostezza, piegando le tensioni dell’unità compositiva anche nelle soluzioni più estreme. Si tratta quindi di opere che pongono Miozzo in perfetta sintonia con la stagione astratta internazionale ed alla quale possiamo ben affermare che propone un valido contibuto di idee. Contibuto che diventa «anticipazione» per uria progressiva introduzione di fatti astratto informali testimoniati da opere su carta datate ’58/’63 e quindi da un ristretto numero di sculture in bronzo, cemento, piombo. È forse questa la stagione più interessante e dialetticamente nuova di Miozzo così come era avvenuto per il periodo,informale dei fortemarmino’ Puliti. In opere come «Foglia» ed ancora più chiaramente in «Annunciazione» l’artista rompe l’unità e la compostezza, abbandona la levigatura delle su perfici prediligendo la scabrosità di un bronzo plasmato con tratti violenti; ancora prediligendo forme in allungamento, sia orizzontali che verticali, Miozzo si impegna nella ricerca di un linguaggio relatore di tensione psicologica, privo di attributi compiacenti, e testimone di una interiore vitalità del suo artefice.
Alle prime carte dove l’informale è incisivamente «segnico» seguono grandi tele vivacemente dipinte secondo la pollockiana prassi del «dripping».
Sono grandi superfici cromatiche ancora testimoni di una volontà trasgressiva ma anche di un costante desiderio di rinnovamento espressivo; Miozzo non abbandonerà più l’informale ritornandovi spesso ed improvvisamente ed ancora attualmente ha in corso di produzione piccole carte caratterizzate da automatismo, e la lezione della cultura gestuale è ancora alla base del ciclo dedicato a «San Martino» a cui ancora lavora. Lo studio oggi presenta un’infinità di sempre più enigmatiche guglie neo gotiche in terracotta: lo stesso soggetto, realizzato in dimensioni diversissime, palpita grazie a superfici scabrose, dove è ancora intatta la traccia del polpastrello, della spatola e del filo; i particolari necessari alla riconducibilità del soggetto si rarefanno per giungere ad una figura assolutamente essenziale e fremente di intima, palpitante vitalità.
Ma Franco Miozzo, come accennavo all’inizio di questa testimonianza, è artista che non si accontenta e uomo che desidera essere vicino ai propri simili, alle comuni culture, ed a tutti dedica lunghi sforzi creativi
per raccontarne ancora la Storia. È in questo clima di partecipazione alla vita del popolo a cui si sente strettamente legato che nasce la vasta produzione figurativa, con al centro la figura delle donne, forti delle massicce dimensioni anatomiche, eppure ricche di umori femminili e materne, dolcemente affettuose e mai volgari. II cavatore come il bue dalla ampie corna sono le altre due componenti del paesaggio umano apuoversiliese e sono raccontati anch’essi con rispetto e soprattutto senza alcuna retorica: forti gli apparati muscolari nel prolungato sforzo ma anche ricchi di pacifica umanità gli sguardi ed i volti composti.
Di particolare qualità rispetto a questo ricco ciclo gli studi su carta con preparazione a grafite, testimoni di una mano creativa sicura conoscitrice dei volumi, dello spessore degli apparati anatomici e delle tensioni da essi sprigionati.
Franco Miozzo dimostra quindi un’articolazione di esperienze e di impegni, una volontà di ricerca interna ai linguaggi dell’arte ma anche un desiderio di costruttivo confronto con le proprie radici, e se una conclusione si può avanzare ad una storia artistica ancora in grado di meravigliarci è sicuramente quella per cui ci troviamo di fronte ad un artista responsabilmente completo e che dovremo iniziare a vedere presente nella storia della cultura visiva contemporanea italiana.