Henry Moore

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di Andrea B. Del Guercio

Valdicastello Carducci, Pietrasanta, Luglio 1982

Quando in Italia si pensa o si interviene criticamente sull’opera di Henry Moore è d’obbligo ritornare con la memoria alla grande Mostra Antologica di Forte Belvedere, a Firenze, del 1972.
Un’esposizione decisiva per l’esatto ed intero riconoscimento dell’arte del Maestro Inglese, ma anche rivoluzionaria rispetto ai meccanismi della programmazione ed organizzazione del­la cultura visiva come fino ad allora si erano ritenuti nel nostro Paese. La presenza di grandi sculture collocate di fronte ad uno scenario dai coordinati caratteri di bellezza naturale e strutturazione urbanistica di impareggiabile fascino, espresse violentemente quanto la fortuna e quindi l’incidenza delle arti visive fosse cresciuta e si fosse anche affermata in vasti e diver­si strati della popolazione. La Mostra dello scultore straniero ricevette per la prima volta infat­ti l’adesione inaspettata di un vastissimo pubblico, e fu questo inaspettato ed eccezionale successo a dare l’avvio ufficiale a quella Stagione di Grandi Mostre ed Esposizioni Antologi­che di Maestri Contemporanei che a partire proprio da quei primi anni ’70 è giunta fino a noi, seppure progressivamente trasformatasi nei meccanismi di produzione per le pesanti interfe­renze di un mercato internazionale sempre meno qualificato scientificamente. La Mostra che presentiamo oggi, e che questa edizione documenta nella sua quasi interezza, rispecchia quella originaria volontà di indagine culturale, riprendendo dalla lettura filologica delle ma­quette o piccole sculture in bronzo e pietra nelle quali forse più delicati e precisi crediamo possano essere osservati tutti i termini culturali e le componenti di sensibilità umana dell’arti­sta nel suo lungo percorso creativo. Una mostra programmata e quindi da osservare con vo­lontà di studio, di indagine e svelamento delle diverse citazioni, dell’articolazione dei periodi, della stabilità dei giudizi culturali e dei sentimenti poetici, delle personalissime risposte ed interventi dell’artista inglese nell’intero complesso della produzione e del dibattito svoltosi nel nostro secolo.
È dagli inizi del ‘900 e nel suo scorrere fino ad oggi, che dobbiamo cui riprendere per com­prendere interamente il significato ed anzi i diversi significati che ci hanno spinto a promuo­vere questa Esposizione. E utile ricordare che della cultura del 900 sia Henry Moore che l’a­rea della Versilia e Forte dei Marmi, sono stati: artefice e protagonista il primo, sede favorita di dibattito e di incontro di quelle creatività la seconda. Ricordiamo come il Forte abbia visto sin dalla fine dell”800 la presenza segreta e schiva di una vasta comunità di intellettuali; poe­ti e pittori del Nord Europa sospinti ed affascinati ancora nel ricordo e nella scia dei viaggi di studio e di riscoperta riproposti nel ‘700 dal Winckelmann, dal crogiolo di testimonianze di una cultura classica, romana e poi rinascimentale e barocca, rintracciabile nei musei, ma so­prattutto ancora intessuta e viva nella vita quotidiana della popolazione.
Solarità come fonte inestinguibile di vita, presenza di ritmi esistenziali intessuti con le antiche gesta narrate dalla cultura epica ed ancora lontana dei `tempi moderni’ della società indu­striale ormai diffusasi dolorosamente in gran parte dell’Europa. Ora se l’Italia nella sua globa­lità presenta ancora quel mondo antico, mostra seppure mestamente ed in maniera confusa e dispersa i ricordi e le testimonianze di quelle stagioni e di quell’età felice, la Toscana, partico­larmente intatta con la sua cultura etrusca, romanica e rinascimentale gioca sin dalla fine del secolo XIX il ruolo di un ripensamento più attento di quegli archeologici entusiasmi illumini­stici, e materiale per fornire risposta o porre quesiti a questo nuovo secolo, il ‘900, ed a que­sta nuova società, la società industriale. A Forte dei Marmi l’incontro culturale su questi di­versi argomenti fu particolarmente felice, e la loro varia interpretazione e periodizzazione si riconosce nelle opere dei poeti romantici e decadenti inglesi e tedeschi, nei pittori svizzeri ricchi di poetiche epico silvane fino alle enigmaticità metafisiche ed allo spirito ricostruttivo della tradizione rinascimentale della pittura italiana.
Un percorso ed una storia culturale di vaste e diverse proporzioni, che muovendo dalla fine dell”800 arriva fino ad anni non troppo lontani, ed anzi è ancora viva grazie alla presenza di un Mario Luzi ed Ernesto Treccani ed il giovane Savinio.
La presenza di Henry Moore in quest’area geografica si definisce stabilmente, dopo vari sog­giorni di lavoro, nel 1965 quando acquista a Forte di Marmi una casa utile per meglio seguire la redazione delle sue sculture nei laboratori di Querceta e di Pietrasanta. Ma se può sembra­re quella del ’65 una data tarda rispetto alle nostre brevi dichiarazioni storiche, e seppure a quel momento erano solo da poco scomparsi Martini, Savinio e Soffici ed ancora si incontra­vano Carrà, Longhi e Marino Marini, dobbiamo anche valutare Henry Moore già primario ar­tefice con Picasso, Arp, Ernst, Brancusi e Giacometti, dei movimenti e delle avanguardie sto­riche del ‘900. La sua presenza stabile a Forte dei Marmi suggella i già fitti rapporti con l’Ita­lia, consolidati con esposizioni e pubblicazioni, e si pone in rapporto di continuità con la sto­ria artistica del nostro secolo che appunto qui trovò punto di incontro e di riferimento.
Nella personalità artistica di Moore abbiamo quindi modo di riconoscere contemporaneamen­te la figura fortemente legata al clima culturale che caratterizzò il ‘900 italiano, e ne sono spia le rivisitazioni della scultura etrusca, romana e rinascimentale, ma anche l’artefice conflittualmente autonomo dei grandi movimenti di avanguardia europea, cubismo, astrattismo, sur­realismo. Un crogiuolo interessante e stimolante di indagini tra realtà culturali diverse ed amalgamate da un profondo spirito e da una forte volontà, positiva e costruttiva, umanistica, rispettosa del passato e serenamente critica di fronte al presente. Un’atteggiamento unitario percorre il lavoro di Moore che questa mostra di piccole sculture, disegni ed opere grafiche presenta in maniera esauriente; ogni opera qui esposta è infatti tappa del suo lavoro, un lavo­ro fatto sul recupero e la costante rielaborazione, anche minima ed impercettibile, di opere in precedenti anni già ideate ed eseguite.
L’esigenza di trovare un linguaggio che conservasse al suo interno uno spirito di continuità con la storia dell’uomo, e che valesse per incisività sul contesto contemporaneo, fece orien­tare sin dagli esordi Henry Moore verso lo studio e la trascrizione coordinata di testimonianze visive provenienti da varie aree geografiche e tipiche di popolazioni antiche ed ormai scom­parse: «ogni arte ha la sua radice nel primitivo ».
Sono anni di studio e di ricerche, che tra le testimonianze dell’antica Mesopotamia, dell’arte Sumerica e Precolombiana e, ancora, lo studio della Storia dell’Arte Italiana, attestano la ri­cerca di un luogo di incontro e di riconoscimento per tutti gli uomini, di tutti i popoli e delle diverse regioni. Di fronte alle infinite sofferenze presenti nella storia dell’uomo e della natura, ed i contemporanei conflitti militari e sociali, Moore, come Brancusi e Picasso, punta alla ri­scoperta e alla interpretazione di quella che potremmo chiamare `anima del mondo’ e che solo per la via dell’antico è possibile avvicinare.
Moore indaga tra le figure dissepolte del passato e negli anfratti della materia, rielabora una maschera africana o un bassorilievo Maya, o il frammento di un’urna etrusca, per poi percor­rere le superfici della pietra, cerca l’anima dell’argilla e le patine del bronzo.
Quello di Moore è stato ed è un lungo lavoro di incontro e di rilevazione per via di testimo­nianze formali del contenuto archetipico dell’uomo e del contenuto vero e segreto della natu­ra. L’artista muove verso la ricostruzione di quell’originario incontro tra l’essere animale e la materia, in funzione di ricavare con la presenza dell’opera un nuovo momento di riflessione per il presente e una continuità di trascrizioni per il futuro; l’opera di Moore è quindi testi­monianza complessa e articolata di citazioni, emozioni e riflessioni di questa nostra epoca a cui e di cui da più parti si vuole imporre uno squallido e piatto silenzio. A questo clima di testimonianza universale sono legati tutti i diversi cicli di opere di Henry Moore. Se si osserva
infatti il piccolo bronzo « Woman with cat », pnlpitante di vitalità e sensibilissima poesia, ed ancora il grande travertino «Draped Reclining Figure» del 1978, ricca della staticità propria di una costruzione antica e carica di uno spirito di attesa, si ha modo di comprendere l’articola­zione del linguaggio espressivo di Henry Moore.
Dell’antico, nel significato ampio del termine, Moore ha compreso la forza di restare presente oltre la precarietà del proprio momento, ed incisivamente attivo anche nei nuovi secoli attra­verso le opere. Rispetto all’ecclettismo vitalistico di Picasso, e forse utilizzando le ricerche del surrealismo e soprattutto della metafisica di De Chirico, Moore ha dato nuovo volto a nuovi contenuti, all’indagine interpretativa delle testimonianze artistiche del passato, tentan­do cioè di coinvolgere la psicologia dell’uomo con la psicologia della materia, ha trovato la forza di proporre il non svelato, il non del tutto certo rispetto ad una società dalle facili e semplicistiche certezze.
Nella grande figura femminile, come ancora in altri piccoli bronzi caratterizzati dal dialogo tra la madre e il figlio, abbiamo precisa coscienza di una comunicazione che va ben oltre il no­stro presente, che fa parte di tutta la nostra unica storia, ed ancora ci auguriamo che a que­sta in futuro possa essere riferita e appartenere. Si sono fatte numerose analisi e si è detto tutto delle citazioni storiche, ma qui raccomanderei Arnolfo Di Cambio, e di questo il Bonifa­cio VIII, attuale al nostro discorso con l’espressione trattenuta nella materia ed ancora la du­rezza dei dati anatomici e l’incisività di quelli di contorno: penso alla posizione accentuata delle gambe e di graffi nella superficie larga dell’abito della grande figura in travertino.
Per queste figure e per questi gruppi familiari, il messaggio è conflittualmente unitario: è il silenzio e l’attesa, è il vuoto e l’enigma, è il passaggio e il trasferimento, è la solitudine, è lo stare oltre il dolore nella storia viva del mondo, è ancora dare a chi sa ricevere e ricevere da chi sa dare, non è ottimismo né pessimismo ma è essere per chi è essere. Queste figure di Moore, la loro storia tra decenni lontani carichi di morte ma anche di gioia, sono sicuramente una presenza inalienabile del nostro paesaggio quotidiano, quello culturale e quello umano: da esse non possiamo ricevere immediate e sicure risposte ai nostri dubbi e alle nostre preoccupazioni; esse ci riabituano ad indagare i silenzi, a pesarne l’entità problematica den­tro di noi. Non conducono certezze né leggi ma invitano i sensibili alla interpretazione.
Parlavamo precedentemente ed a proposito del riferimento ad Arnolfo Di Cambio e fattori astratti che pure in altri cicli di Moore hanno avuto tanta importanza e varie soluzioni espressive. Nelle maquette « For ovai with points » del 1968, « Bird form II » del 1971, « Bird form I » del 1973 il termine «astratto» è solo parzialmente esatto in quanto ogni opera ha valore e signifi­cato di realtà organica, cioè di dato estratto dal ventre profondo della natura e si può ritenere esclusa la diretta partecipazione culturale dell’artefice. Dicevamo precedentemente della forte volontà di Henry Moore di penetrare ed estrarre il vivo spirito della natura; un’atteggiamento condotto sulla pietra, sull’argilla il bronzo. Da questi materiali Moore estrae non astrazioni fini a se stesse, estetiche e decorative, ma ritrova matrici costruttive degli esseri viventi; sono frammenti ossei e scheletri, gusci e conchiglie, anatomie animali; sono tracce e ricordi di realtà un tempo vive ed ora trascorse e scarnificate dal tempo. Queste sculture e tanti disegni preparatori possono quindi continuare ad essere riferiti al mondo ed ancora alla realtà dalla quale spesso si cerca di fuggire. Anche in questi casi Moore riconduce la scultura alla realtà, a brevi brani di vita, a particolari frammenti di storia animale a citazioni del mondo vegetale e della vita segreta della cellula. Forme e tracce della vita che a noi sfuggono ma che sono la base e la composizione della storia. AI termine astrazione, e per rispettare meglio l’apparte­nenza di queste opere al mondo organico della natura, ritengo si possa inserire almeno in alcuni casi il termine informale. Non più organico ma attraverso l’informale presenza dell’i­norganico della natura; in alcuni casi o particolari l’immagine figurale si configura per grandi fantasmi, in ombre, in sagome, in forme. Spirito informale mai esplosivo né liberatorio ma sempre lirico.
Nel percorso della mostra Moore ha anche inserito una serie di splendidi disegni e di litogra­fie dove mostra pienamente che pur avendo alle spalle diverse ricerche e soluzioni formali è in grado di ritrovare nell’immagine figurativa del corpo femminile dell’umore materno e sen­suale delle sue forme, il caldo enigma dei suoi movimenti e l’accogliente luogo dell’oblio. Torpore e trepidazione in queste figure dalle forme classiche così come strazianti i segni del dolore del Cristo rivisitato del Bellini. Amore dolcissimo e dolore profondo interiorizzato nel­l’atto della «copia»; ancora un confronto utile alla compenetrazione e comprensione tra secoli diversi, tra uomini diversi.

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