Materiali della Scultura Italiana, 1960‑1990

materiali-della-scultur

di Andrea B. Del Guercio

1991

Nel confronto critico ed espositivo si ha l’occasione di rintracciare e studiare i caratteri espressivo‑problematici sintomatici della volontà di attenzione responsabile delle grammatiche visive in sintonia con quel complesso di fenomeni che rinnovano il confronto collettivo, nel contesto dei diversi caratteri di fruizione e frequentazione.
Si dovrà osservare che all’interno di una stagione, gli anni ’60, animata da un dibattito critico articolato tra una prima strategia post‑informale (1), intenzionata a sviluppare e distribuire il complesso deposito astratto co­struttivista, e la subito successiva attenzione per una dichiarata de‑oggettualizzazione, per una finalizzata proget­tualità (Z), il corpo o terreno di manovra risulta, più o meno dichiaratamente, tra aree problematico/simboliche e spazi tangibili, tra valori di interferenza, di confronto e di «partecipazione».
Un clima tematico di vasto riferimento, che non nega sul piano degli avvenimenti e delle posizioni espresse contrapposizioni nette, dettate da individuali e specifici interessi, ma che ritengo utile estrapolare ed evidenziare per una linea di tendenza proiettata, nella sua articolata globalità, nella frequentazione di un territorio qualificato ai suoi estremi dal supporto, per i valori simbolici raccolti nei materiali, alle strategie di redazione ed installazione nello spazio privato e pubblico.
In più occasioni editoriali, sottolineavo la necessità di tenere stretti collegamenti e riferimenti con quella sede privilegiata di ricerca e produzione rappresentata dal dato di supporto all’opera, ed alle caratteristiche specifiche di volta in volta poste in evidenza. Una cultura dei materiali che fu nuova per i linguaggi artistici e sulla quale si fonda parte di quella cultura della sperimentazione teorico/pratica, iniziata con la prima stagione moderna, ed emblematizzabile succintamente attraverso la «Chitarra» del 1912, per le relazioni tra superficie e struttura aggettante del volume di Picasso, alla «Testa di donna» del 1929/1930, per un reciclaggio di materiali diversi rispet­to all’originaria funzione (un colino), sempre dell’artista spagnolo. Una scultura visivo‑plastica che qualifica pro­gettualmente Duchamp negli stessi anni con «Ruota di bicicletta» del 1913 e «Scola bottiglie» del 1914.
Due autori di riferimento, rispetto ad un clima articolato e vivace, costruito da contributi diversi, per quegli sviluppi che giungono ai nostri giorni; un secondo dopo‑guerra che ha consolidato in questo clima una cultura del supporto, accentuando di volta in volta i valori simbolici rappresentati nel contesto ampio della società uma­na, e quindi affrontando‑inglobando gli stessi processi di produzione industriale.
Quando definiamo il radicamento di una cultura del supporto e dei suoi processi diversi, si deve riconoscere una distribuzione e diffusione ampia, radicata per aree formali e problematiche ritenute, in quest’ottica, riduttiva­mente troppo distanti, spesso contrapposte.
Ora il rapporto tra i nuovi processi espressivi, cosi caratterizzati, ed una depositata tradizione della cultura
materiale italiana non poteva non risultare interessante e proficua: si tratta cioè di porre in chiara evidenza una naturale correlazione tra una sfera di produzione manuale ed artigiana, attraverso un tessuto fitto di botteghe, laboratori e piccola industria, e le nuove esigenze artistico‑costruttive espresse da operatori coinvolti in profondi­tà in tale tessuto e tradizioni; dalle ceramiche ai vetri, ai neon presenti lungo tutta la produzione di Fontana, dalle tele di sacco alla plastiche e alle resine sintetiche di Burri, ai ferri «reciclati» ancora rispetto alla funzione d’uso di Colla.
L’apporto italiano nel suo sviluppo storico recente, rispetto ad una base comune internazionalmente diffusa, presenta caratteri autonomi, qualificati su un piano di particolare collegamento diretto con i caratteri di una pro­blematica collettiva, con settori e sfere della pratica quotidiana, ed indiretto, per ambiti di mediazione culturale storica, per umori metafisici, ora antropologicamente caratterizzati, ora per specificazioni sul piano del costume.
All’interno di un paesaggio artistico nazionale e rispetto al contesto problematico espresso, gli autori, che si é inteso affrontare in questa sede espositiva ed editoriale, presentano motivi di particolare interesse per specifi­che avventure ed approfondimenti articolati nell’arco di tempo posto tra gli anni ’60 e gli anni ’80.
Riconosciuta e rifiutando una qualsiasi ipotesi di unità stilistica, principio critico ambiguo e non in grado di osservare la complessità insita in un manufatto artistico, ritengo che le diverse aree di indagini e le autonome grammatiche pongano in evidenza un progetto culturale attento alla fitta rete di rapporti tra linguaggi artistico­visivi ed i contesti esterni, per approfondimento analitico di brani estrapolati ‑ Teodosio Magnoni e Carlo Loren­zetti ‑, in esaltazione di valori diversi in essi raccolti ‑ Giuseppe Uncini ‑, per trascrizione e diverso impiego di processi produttivi ‑ Nicola Carrino, Mauro Staccioli, Pino Spagnulo, ‑ con introduzione diretta e partecipata, mirata antropologicamente ‑ Antonio Paradiso ‑ filtrati attraverso una orchestrazione progettuale in costante mo­vimento ‑ Eliseo Mattiacci.
Rinviando ad indagini monografiche nel prosieguo di questa edizione, é utile segnalare la presenza di Magnoni e Lorenzetti per un’area di indagine che ha operato sul passaggio dalla scultura del volume a quella della superficie; all’interno di due autonomi processi espressivi, si rileva una grammatica analiticamente caratterizzata da un azze­ramento degli strumenti ‑ la linea, la lastra ‑ che opera su una minimalizzazione dei dati di supporto, ‑ il legno il ferro e l’alluminio ‑ e così dei processi di produzione e manipolazione ‑ la piegatura, il tutto verificato all’interno di quella superficie che é lo spazio ‑ dell’habitat, della città.
Un processo di analisi di questo clima orientato é anche alla base dell’operare di Carrino, Uncini e Staccioli allar­gato alla sfera della produzione costruttiva effettiva ed a quella di una fruizione in forme di partecipazione; il manufatto plastico redatto con valori di edificazione, caratterizzato ancora per materiali di supporto strettamente riferiti ad una volontà costruttiva, ‑ il cemento, il ferro ‑ viene ad impegnare lo spazio, segna nettamente il paesag­gio quotidiano, diversifica ideologicamente la percezione e qualifica la fruizione.
Valori sempre collettivi, ma racchiusi nel processo di produzione sono emblematizzati visivamente nell’opera di Spagnulo da fattori formali netti e di grande energia ‑ il taglio, la pressione, la piegatura ‑ su una base di suppor­to ‑ il ferro ‑ propria dell’industria, delle grandi fonderie.
Uno stretto rapporto tra i processi produttivi, l’organizzazione del lavoro, il valore insito tra i tanti significati in una mansione professionale, appaiono con caratterizzazioni estremamente diverse, nel percorso espressivo di Mattiacci ‑ dal diretto impiego di una macchina schiacciasassi in ambito privato (l’Attico Roma 1969) alla redazio­ne di nuove macchine (Carro solare del Montefeltro 1986) ‑ e di Paradiso in un clima che si specifica antropologi­camente ed etnograficamente ‑ raccolta dello sperma dal toro nel 1970, lungometraggio dedicato alla «tarantolata» pugliese, al rapporto attivo con il design, al più recente volo radente di grandi uccelli dalla Colonna della Pace dell’88/89.
«La scultura contemporanea ha tante facce e una in comune la volontà dell’artista contemporaneo di rappresentare un presente, un tempo ‑ “ce grand sculpteur”, per dirla con la Yourcenar ‑ contingente e immanente, fatto dei parametri della quotidianità, o, in altri casi, relato come proiezione della contemporaneità, al mito, all’al­legoria, al simbolico: sulla tangente dei contenuti, però, non nell’espressione formale».
Una dichiarazione introduttiva di Giovanni Carandente (3) ai temi ed al clima della scultura contemporanea, che credo possa emblematizzare e sottolineare l’impostazione ed i risultati dell’indagine fin qui svolta, il taglio di riferimento per una struttura linguistica che include al suo interno e si qualifica con relazioni strette, spesso specificizzate nell’impiego dei materiali, con quell’arco ampio di fatti e componenti problematiche collettive.
L’arco di anni attraversato non a caso é stato quanto mai caratterizzato da una cultura, diretta ed indiretta, della partecipazione, della presenza nella complessa articolazione di tensioni sociali, ambientali e culturali; un ag­gravio di responsabilità per l’intellettuale e l’artista che doveva essere filtrato e di nuovo, rielaborato sul piano linguistico‑espressivo.
In questo clima le aree di indagine si moltiplicano e si specificano ‑ dall’idea di spazio all’architettura, al suo attraversamento e frequentazione progettuale ‑, ed il linguaggio visivo‑plastico si attesta per riflessioni e sviluppo su una serie di materiali sintomatici per specifiche caratteristiche ed in relazione tra soluzioni applicative e sfere di produzione.

Note: (1) G. C. Argan, Oltre l’informale, Repubblica di San Marino, 1963. (2) G. Celant, Precronistoria, 1966‑69, CentroDi Firenze, 1976. (3) G. Carandente, Vitalità della scultura, Biennale di Venezia, Fabbri Editore, Milano 1988.

NICOLA CARRINO

L’intero percorso espressivo di Nicola Carrino é co­struito e sostenuto da un severo progetto culturale, scandito da approfondimenti teorici, autonomi ed in sintonia dialettica con il dibattito storico‑artistico e storico‑architettonico. L’origine della produzione ar­tistica e della strategia culturale si inquadra nella svol­ta impressa nei primi anni ’60 da Giulio Carlo Argan, con un carico di crescente e civile responsabilità per i processi espressivi, per conseguenti risultati oggettuali ed in fase di installazione nel contesto sociale. Una ma­teria teorica che Carrino specifica nella costituzione di Forma 1 ‑ con Biggi, Frascà, Pace, Santoro e Unci­ni. Un contributo personale che costruisce l’ampio di­battito predisposto direttamente dagli scultori tra gli anni Sessanta e Settanta, e che in Italia ha punti di forza nelle proposte di Pietro Consagra, la “Città Orizzon­tale” del 1968‑69 e di Arnaldo Pomodoro nel Proget­to per il Nuovo Cirùitero di Urbino del 1972; una ma­teria complessa tornata, dopo una stagione effimero­progettuale 1975‑80, nella cultura plastica delle nuove generazioni.
Oggi, riosservando trent’anni di attività, aperti pro­spetticamente sugli sviluppi attuali ed immediatamen­te futuri, possiamo raccogliere due termini problema­tici, sottolineati recentemente anche da Trini nel «Con­trollo puntuale dei valori d’uso» e nella «Nuova ur­genza dei valori di gruppo». Le due aree problemati­che devono essere sempre osservate in funzione di in­terazione, per essere effettivamente costruttive; una coe­sione che, di volta in volta, si specifica manufatto per manufatto, progetto per progetto, nel quadro di pro­duttive interferenze con il contesto architettonico ed urbanistico. La presenza, nella storia della scultura con­temporanea, dei «Costruttivo» risponde, tra le valen­ze ancora architettoniche del termine, alla redazione di una scultura caratterizzata da mobilità su una strut­tura formale rigorosamente logica, di una scultura che si rinnova per sua natura in una fruizione attiva, col­lettiva. I diversi “Costruttivo”, scanditi da una modu­larità geometrica per alleggerimento di ogni struttura formale, sono qualificati nei valori estetici e di conte­nuto da una sempre diversa organizzazione, per accu­mulo o separatezza, in relazione allo spazio pubblico­privato, ed alla funzione d’uso.
Muovendo dal Costruttivo le Ellissi, in forma sia pla­stica che pittorica, in esterno ed interno hanno ragio­ne, sempre in stretto rapporto, nell’interagire con il contenitore. Sia grandi Ellissi inserite nel complesso architettonico ‑ Cassa Scuola Professionale Edile di Ta­ranto ‑ che nuovi Costruttivi inseriti nell’impianto ur­banistico di una piazza, sempre di Taranto (in fase di realizzazione) il progetto plastico consegue ad una vo­lontà e quindi ad uno studio per una percezione di va­lori formali che definiamo valori culturali collettivi.
Sono quei «valori di gruppo» nati da una concezio­ne aperta dei valori d’uso che Carrino conferma inter­venendo nel contesto privato, muovendo cromatica­mente, anche quando ha il peso specifico di una lastra di ferro monocromo, la geometria piana verso una più intensa sensibilità contemporanea.

CARLO LORENZETTI

L’indagine critica avviata sull’attività di C. Loren­zetti può prendere come estremi cronologici due ope­re importanti, simili nelle dimensioni e nel materiale impiegato: «Figura spoletina» progettata e realizzata nel lontano 1962 per la prima esposizione dedicata alla scul­tura contemporanea in Italia, secondo il progetto cri­tico di G. Carandente, verificato sull’impianto urba­nistico di Spoleto, e «Materana» nel 1988, che ho avu­to più occasioni di inserire nei progetti espositivi di questi anni. Lorenzetti, come le due opere perfettamen­te segnalano, costruisce l’intero suo percorso espressi­vo sul tema della lastra, cioè su una scultura che ha abbandonato il volume, le sue segretezze, per dichia­rarsi interamente, corrispondendo con la cultura pro­duttiva moderna. La presenza linguistica della lastra di ferro apre al tema della superficie, che per Loren­zetti é lo spazio determinato della comunicazione co­sì come per altri é quello dell’habitat.
Si tratta di una indagine costante e concentrata su questo tema che solo superficialmente, per uno sguar­do distratto può apparire improduttivo, di riflessione, ma che attraverso una redazione sensibilissima, imper­cettibile nei tagli, nelle piegature svela una carica nar­rativa. Il foglio metallico, disinserito da riduzioni mi­nimali, diventa luogo di intervento, accresciuto qualitativamente da una diversificata combine, da una re­dazione responsabilmente mirata costruttivamente. Di­versi fogli si intersecano come pareti sovrapponendo­si per dialogare nel grande “monumento” del ’62; si tratta di un risultato formale controllato con grande rigore, ma aperto, in dichiarato alleggerimento, cosi come sottolineano i tagli sbocconcellati, memori di umori antichi, archeologici. Lo stato di libertà, in una composizione progettualmente controllata, che diventa a distanza di tanti anni argomento di riflessione, con­cettuale tema propulsivo per «Materana» dell’88. Qui Lorenzetti ha operato in alleggerimento del materia­le, della lastra ad un foglio a bassissimo spessore in ac­ciaio cortex non trattato, per conseguire un disequili­brio che diventa effettiva mobilità aerea di una delle sue componenti. In «Materana», nella sua elegante e sempre severa condizione di staticità e libertà, insita nella sua struttura compositiva; riconosciamo anni di ricerca, di manipolazioni, per piegature ora evidenti ora appena percepibili del foglio metallico, il ferro, l’ot­tone sbalzato. Un processo espressivo nel passato e nel­l’attualità che filologicamente va verificato ed intera­mente apprezzato nella vasta collezione di progetti, nel­la manipolazione delle carte, concettualizzazione estre­ma del lavoro sul foglio.

TEODOSIO MAGNONI

L’intera storia artistica di Teodosio Magnoni segue un processo logico‑sperimentale attento ai valori essen­ziali del segno e della superficie, proiettati nello spa­zio, colti nei processi strutturali di fruizione.
Non si deve intendere un rigore decontestualizzato ed asetticizzato, storicoartisticamente determinato, ma verificare una scientificità, forse un’alchimia tra intensi e sintetici sviluppi dell’intelligenza e della sensibilità.
L’indagine critica rileva opere per un processo espres­sivo che non può essere caratterizzato da una archeo­logia di origini segnico‑plastiche, terreno specifico di indagine della stagione «moderna», ma che ripartendo da questa, ha inteso dirigere su una sperimentazione in grado di comunicare propri ed autonomi valori; cosi non é ipotizzabile un «… presunto inpaccio della ma­teria, come indica la fisicità del legno, costante l’estre­ma riduzione degli spessori, ponendosi come ostacolo alla speculazione teorica ed alla rappresentanza del pen­siero» ‑ nella lettura critica di Francesco Moschini ‑ dove anche i materiali, il loro diverso impiego, apportano un contributo, emotivo‑emozionale, qualificano il ri­gore «architettonico» insito nella ricerca plastica.
La presenza del legno in listelli nelle «strutture» del ’67/’69 svolge un ruolo attivo, un contributo nella ma­nipolazione di una linearità strutturale frequentabile, dislocata nello spazio con possibilità di articolazione e mobilità; una progettualità ed una produzione anali­tica, ma che non mimetizza la presenza significante del­le cerniere.
Una tensione sperimentale caratterizzata dal rigoroso abbandono del volume per farsi progetto, indagine at­traverso il disegno dello spazio, lettura e riconoscimen­to di un’area virtualmente plastica; ancora un percor­so severo in riduzione verso la linea con il contributo specifico del tondino d’acciaio, di cui Magnoni con­cettualizza, per una grammatica segnico‑spaziale, i de­positati e riconosciuti valori di impaginazione e costru­zione; é la produzione redatta nella prima metà degli anni ’70 e da cui dipendono strettamente progetti di grande portata nel confronto attivo con l’architettu­ra, sia in aree esterne, Intervento‑Scultura del 74 per il Corviale IACP di Roma, sia in contesti interni atti­vamente frequentabili, Spazio‑Ambiente del 77, Inter­vento 78 a Venezia, Ambiente‑Scultura del 77 per il K.E.O. Museum di Hagen.
Il tema di una progettualità lineare fruibile é racchiu­sa dallo stesso Magnoni con il titolo «Nel fare spazio parla e si cela al tempo stesso un accadere».
Il confronto e la riprogettazione atta a favorire una inedita carica emozionale ‑ percettibile dell’habitat, é alla base di tutto il lavoro degli anni ’80, caratterizzati e qualificati da indagini e realizzazioni sul terreno del­la superficie, ancora nell’ottica di virtuali specificazio­ni formali, ricaricate per nuovi valori cromatici; la su­perficie é qui intesa per porzioni disegnate, in grado di costruire lo spazio, progettare un volume funzio­nale e qualificare la sua percezione/fruizione.

ELISEO MATTIACCI

Sono le parole dello stesso Mattiacci ad introdurre l’osservazione critica, «Attingere alle origini irradiate come da stratificazione, di energia fossile, echi della me­moria, sguardo verso il futuro, rendere il tutto essen­ziale».
La dichiarazione illumina su un procedere attento, al cui interno coesistono interessi culturali, di volta in volta individuati e specificatamente affrontati lingui­sticamente, sintomatici di una lettura interpretativa am­pia, tra tracce depositate e nuove reazioni, dell’esiste­re. Si tratta di una cultura visiva qualificata sempre dal «fare», intendendo partecipazione attiva, non mediata progettualmente; l’ingresso, in prima persona condotto, di una macchina schiacciasassi nei locali della Galleria l’Attico nel 1969; lo sprofondamento fisico nella ma­teria, per tattile autoriconsiderazione nel fango nel 1973, oggi una produttività posta in relazione con ma­nufatti e processi meccanico‑industriali.
La presenza nel percorso espressivo di Mattiacci, di materiali di supporto comunque caratterizzati sul pia­no costruttivo‑comunicativo, sicuramente non effimeri, relatori tangibili di messaggi, qualificano interessi cul­turali, sostengono una strategia espressiva che potrem­mo definire all’interno di un clima «antropologico», dove il territorio presenta confini aperti tra passato e presente, tra l’uomo e la società, ma anche un’area di interessi da cui consegue il costante impegno sperimen­tale, sia sul piano linguistico‑visivo, tra oggettivazio­ne e progettualità dell’opera, che dei contenuti e delle aree problematiche.
Le produzioni plastiche di questi ultimi anni, forse me­mori della carica espressa nella già citata performance del ’69, appaiono concentrate formalmente e temati­camente su una condizione di energia, ancora e simul­taneamente antica, attraverso il «Carro solare del Mon­tefeltro» dell’86, e moderna, con «Esplorazione magne­tica» dell’88; un’energia implosa, raccolta ed immobi­lizzata per grandi macchine rotanti, rigorose ed essen­ziali in grado di attraversare l’arco intero dell’esperienza costruttivo‑sperimentale dell’uomo, e quindi non riduttivamente aggressive, ma bensì culturalmente pre­disposte alla ricezione ed allo scrutamento, alla perce­zione di messaggi e di altre esperienze.
Ogni grande «carro», sembra attentamente preser­vare al suo interno, nel clima immobilizzato ma elo­quente del moto e della ricezione, valori progettuali verificati negli anni ’70, ma é anche il risultato di rela­zioni specifiche con la produzione industriale, di cui esalta e moltiplica i significati rispetto alla originaria destinazione; un processo quindi di rimanipolazione ancora caratterizzato antropologicamente.

ANTONIO PARADISO

Paradiso mi accoglie nel suo studio tanto simile ad un brano di Puglia nel cuore di Milano, composto su­bito di una corte bianco‑calce ombreggiata da un rigo­glioso pergolato, ed animato da ampie sagome in pie­tra di Trani, severe steli in granito lombardo, solidi volumi nel caldo colore del tufo …
… Temi diversi affollano una produzione tanto di­versificata sul piano delle risoluzioni grammatico‑visive, nella tecnologia di redazione e nelle qualità dei sup­porti, per gravitare riunificate in una definizione del­lo stesso Paradiso del 76, «Vorrei conoscere l’energia operante, l’universo a produrre, il conservarsi e il di­struggersi, la natura». Pur trattenuto dal seguire una prassi critica fondata, con una diffusa superficiale pre­sunzione, sulla «decifrazione», ipotizzo per il lettore una frequentazione interpretativa condizionata da una personale ed intima coscienza dell’originario, dell’an­cestrale, dei processi antropologicamente primari di re­lazione e confronto tra l’uomo e l’habitat.
Ogni manufatto come ogni fotogramma nell’opera di Paradiso ha il peso di una estrapolazione dichiarata e vitale, rielaborata e riedificata, di radici, di una con­dizione interna preesistente ora nel supporto, ora nel paesaggio, ora nei rapporti umani, ora nel mondo na­turale.
Ritorno nella memoria a quella Biennale veneziana marcata da Paradiso con il toro da monta, che in una stagione che ci aveva presentato il mondo animale in varia specie nel ruolo di una metafisica spiazzante, ap­pare qui introdotto con valore di espressione massima di potenza e vitalità, carica di attività effettiva. Umori sottolineati e mai mimetizzati anche tra i fotogrammi soleggiati della stagione cinematografica, nello sfondo di anfiteatri tagliati nelle cave di tufo, da cui Paradiso ha estratto blocchi per la redazione di macchine sem­plici, per strumenti severi, come solo nella storia so­no stati gli attrezzi agricoli, dalle macchine all’aratro, ai pozzi, per aree geografiche poste alle più diverse la­titudini. Ancora la pietra, il granito ed il Trani, ed in quest’ultima stagione l’acciaio, sono al centro di una produzione plastica caratterizzata da quegli umori e da quelle tensioni antiche già ricordate ed ancora radi­cate nei processi che regolano la terra e il cielo, il mondo naturale e l’universo.
Sia nei monoliti che nell’ultima grande colonna, ani­mata dal vortice d’aria ascendente‑discendente di un volo collettivo, vengono ad interagire e quindi a dia­logare la superficie terrestre e la volta celeste.
Libertà ed elevazione per un verso, staticità e con­solidamento, coesistono contrapposti irradiandosi e ca­ratterizzando il lavoro di Antonio Paradiso, qualifican­do una responsabile attenzione alla «funzione d’uso» della scultura, posta in rapporto con la fruizione col­lettiva.

GIUSEPPE SPAGNULO

Ho già suggerito introduttivamente relazioni dell’at­tività di Pino Spagnulo con i “processi di produzio­ne” in grado di qualificare, con le proprie caratteristi­che, l’incisività formale ed emozionale di ogni opera. Si possono a lungo discutere ed approfondire le diver­se personalità della scultura contemporanea nelle loro relazioni con i materiali di supporto, ma nel caso spe­cifico di Spagnulo trovo stimolante muovere verso l’o­rigine creativamente produttiva impressa nella sensi­bilità dell’autore dai processi, dalle fasi di produzione e manipolazione delle materie quali la terracotta, il ferro e la ghisa. Per processi di produzione, e in relazione ai materiali si riconosce la bottega artigianale e l’indu­stria pesante, tra mansioni di base, meccanismi e for­me primarie. La cultura materiale di Spagnulo, auten­ticamente tipica di un uomo mediterraneo, responsa­bilmente antico ‑ la terracotta ‑ e moderno ‑ il ferro ‑ si é quindi qualificata non per una stagione formal­mente minimale, tipica di altre aree geografico‑culturali, ma per una volontà di osservazione e di compenetra­zione profonda, testimone, attraverso i risultati del va­lore civile del lavoro. In ogni manufatto dai primi fer­ri spezzati; dal “Cubo e testa” dei primi anni 60 al “Cu­bo e piastra” al “Cerchio” degli anni 90, riconoscia­mo l’attenzione ad una redazione fatta per tagli, per piegature, per pressioni che crescono sul piano dell’in­cidenza tecnologica; una crescita qualificata tecnolo­gicamente che si pone in corrispondenza con la cre­scita dei volumi e dei pezzi, ma che si fonda sempre sullo stesso territorio espressivo, sul medesimo progetto culturale. Se si osserva la grande “Torre” in cotto co­struita per porzioni diverse, per giunture a pianta lar­ga, severa ed antica non si può non distogliere il pen­siero, così come per altre figure redatte nella stessa ma­teria, dalla corrispondenza evidente con i processi ar­tigianali tradizionali; spostando la nostra attenzione sul­l’altra materia, il ferro, emblema costruttivo del no­stro secolo, non sfuggirà un clima comune raccolto nel titolo «Archeologia» del 1990.
Le grandi opere, la carica emozionale e di parteci­pazione, la presenza di umori civili, sono il risultato controllato da Spagnulo di procedimenti tanto diversi da cui in ultimo consegue un processo logico serrato, supportato dalla cultura industriale. Si può ritenere, senza sprofondare in facili retoriche ma per partecipa­re responsabilmente nel sociale, che l’intera attività, in un crescendo racchiuso negli ultimi grandi lavori, grumi di materia spezzata, tagliata, compressa, maciul­lata, é racchiuso il senso costruttivo dell’attività uma­na lungo l’arco intero della sua storia e nell’attualità.

MAURO STACCIOLI

Il processo storico espressivo proposto da Mauro Staccioli si presenta in termini di straordinario rigore e si propone all’interno di un processo logico per bre­vi e lungamente verificati spostamenti.
Rispetto alla babele linguistica proposta dalla seconda metà degli anni 70 e ad una impoverita stagione po­stmoderna depauperata daî suoi originali valori, il ri­gore che abbiamo indicato per Staccioli va caratteriz­zato e qualificato in termini di sviluppo e processo teo­rico da cui dipende una serrata evoluzione formale. Un progetto culturale profondamente radicato nel rinno­vamento linguistico‑visivo degli anni 60, internazional­mente riconosciuto e depositato in una complessiva area minimal, che a livello italiano e specificamente per Stac­cioli, trova radici ideologiche nelle avanguardie russe e nei suoi sviluppi arte‑architettura della prima metà del ‘900. Ora si può anche osservare come queste radi­ci moderne e contemporanee ne abbiano articolato il percorso formale. Si tratta cioè di una grammatica co­struttiva che sempre ha tenuto un rapporto attivo e diretto con le entità di spazio con le sue caratteristi­che ora di ambiente naturale, caratterizzato paesaggi­sticamente, ora di realtà urbana, qualificata architet­tonicamente e rispettato nelle funzioni d’uso. Questo rapporto immediato con l’habitat, precisato espositi­vamente anche negli ultimi interventi, pone in evidenza la volontà dello scultore di segnare, di marcare il terri­torio, qualificandolo, provocando una percezione ed una fruizione inedita ma collegata con il paesaggio sen­sibile, e contemporaneo. Risulta un processo espressi­vo nella doppia qualifica di scultore/architetto con re­dazione di grammatiche geometrico‑solide, in una fa­se iniziale, caratterizzata da trasgressività, da una vi­vacità espressionista ‑ Barriera 1969 ‑ ed in anni più re­centi vivacizzata tra assottigliamento, alleggerimento, disequilibrio. Una evoluzione quindi anche al suo in­terno sempre e comunque controllata da una redazio­ne progettata e da una strategia di installazione dai ca­ratteri progettuali; ogni manufatto presenta infatti tutti i dati di una moderna ed industriale produttività con accentuazione dei valori costruttivi emblematizzati dal­l’uso del cemento armato, e supportati dalla deretori­cizzazione delle fasi di produzione tipicamente arti­stiche.
Complessivamente i risultati del lavoro di Staccioli fanno parte della cultura del lavoro e quindi di una spe­cifica cultura materiale ed ancora in sintonia con la cul­tura del costruire, dell’architettura.
«Il cemento di Uncini, il gesso e caolino di Manzo­ni, lo smalto di Schifano, le resine sintetiche di Lo Sa­vio, tra il 1958 e il ’59, sono il primo segno limpido e inconfondibile dell’alfabeto artistico che porterà al differenziato articolarsi degli anni Sessanta», pone in evidenza Accame; un alfabeto di ricerca in cui sono impegnati valori espressivi e contenuti simbolico­problematici, insistiti e sottolineati tra specifiche qua­lità cromatico‑formali e testimonianze dirette del con­temporaneo paesaggio civile.
Un alfabeto cromatico‑strutturale che si qualifica nel­la manipolazione del cemento armato tra il 1959 ed il 1963, per brani di superfici‑pareti rigorosamente grigio‑scure, spessorate volumetricamente oltre il vir­tuale dal sensibile movimento delle ombre, che si spe­cifica nell’impiego del mattone in «Arco con ombra» del 1970 scandito tra il caldo dei rossi e la severità dei grigi, che si sviluppa nello spazio attraverso i valori analitici della linea, con utilizzo della longarina e del tondino di ferro per,un costruire architetture, dalla «Fi­nestra con ombra» del 1964 agli «Spazi di ferro» degli anni ’80.
Sono quindi estremamente precise le premesse linguistiche, rigorosamente scandite da una produzione lontana da compiacimenti sovrastrutturali, ma anche senza corrispondere a processi di azzeramento e ridu­zione tipici della stagione minimal. Unificante proble­maticamente é per Uncini la lettura interpretativa, lo studio e la frequentazione produttiva della cultura del costruire, dei suoi moderni caratteri comunicativi tra umori metafisici, della sua incidenza in un paesaggio quotidiano. Un paesaggio architettonico, quello di Un­cini, a lungo progettato e sperimentato per brani mo­dulari, in sintonia con i processi costruttivi, per cam­pioni diversi in grado di acquisire corpo e dimensione interagente con lo spazio, riqualificante le funzioni d’u­so e la percezione estetica.
L’ampio dibattito, lo scontro vivace anche recente sulla dicotomia arte/architettura, nell’interagire strut­turale dell’indagine plastica, del suo confronto con l’ha­bitat, esterno‑interno, ritengo in questa prospettiva, tra questi risultati di Uncini, sia stato decisamente scaval­cato, sia sul piano della ricerca linguistica, riferita ai valori estetici dei materiali impiegati, ma anche in fa­se di impiego diretto, sempre nel momento in cui si sarà consolidata una nuova cultura ed una diversa po­litica della Città.