Arturo Puliti

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di Andrea B. Del Guercio

Firenze, luglio 1980

« Dipingere è anche esprimere per segni ciò che non si può esprimere con le azioni » G. Novelli ’68

Ripercorrere un itinerario umano ed artistico presenta sempre a chi ha amore per la lettura critica motivo di riflessione, spazio per lo svolgimento di argomenti e problematiche spesso ritenute erroniamente omnicomprese. E tutto ciò assume particolare conferma quando si tratta di affrontare il lavoro di arti­sti che hanno teso a mantenere, pur sorretti da critici e galleristi di indiscutibi­le valore e intelligenza, un ruolo ed uno spazio controllabile, scegliendo del­l’« informazione » gli aspetti positivi e qualificanti e quindi rifiutando di scen­dere sul terreno della facile consumazione e dell’improvvisazione. Il caso di Arturo Puliti è appunto in questo senso ideale e con spirito di ricerca e di curiosità mi sono disposto a curare questa mostra antologica ed in pari modo questa intro­duzione che per altro gentilmente egli ha voluto.
Rivisitando questo trentennio di attività pittorica di Puliti appare subito indubbia la sostanziale appartenenza di questo a quella « vasta corrente dell’astrattismo europeo » (R. De Grada) che anche in Toscana ha avuto parti­colare diffusione e che in Versilia ha visto personalità di valore quali Ugo Gui­di del periodo ’72 ’73 e soprattutto Mario Colzi, di cui attendiamo ancora un definitivo riconoscimento; ma altrettanto indubbiamente è apparsa ai colleghi che mi hanno preceduto la posizione autonoma ed indipendente di Puliti nel paesaggio artistico nazionale al quale come vedremo ha apportato, da un osser­vatorio mobile fino al ’63, e poi da Firenze e Forte dei Marmi, indicazioni e proposte di notevole significanza e valore.
Infatti se già si osservano le opere collocate tra il ’55 ed il ’60, così cariche di materia fino al che l’immagine sottostante si decomponga dando vita da una unità del tutto nuova, non si potrà non parlare di una loro appartenenza alla migliore stagionale informale.
È il caso dei quadri del ’56 ’58 come « Cave di Marmo », « Gatto selvati­co AGIP in costruzione », ed ancora « Gazzometro » del ’60, « Mulino in Versilia » del ’62, « La baracca » del ’63. La pittura di A. Puliti, informale e materica, va in quegli anni progressivamente occupando nuovo spessore ed una sempre maggiore sicurezza formale; è soprattutto il caso dei quadri per il « Gazzometro » dove la macchia di colore scuro, suggerendo già i successivi termini di una sorta di astrazione fantastica e poi di geometrizzazione, si pro­duce in un risultato non lontano dalle contemporanee esperienze informali di Moretti, Fallani, Masi, Baldi a Firenze. Sagome scure volteggiano enigmatiche prendendo lo spessore di una emozione decisa e inquietante, la pittura si carica di forza vitale e di partecipazione emotiva. A questo proposito e per meglio comprendere il retroscena di quegli anni e di quelle esperienze, è utile ricorda­re, come il gruppo informale fiorentino, seppure animato dal desiderio di usci­re dai meccanismi stretti del realismo, avesse in ogni caso alle spalle la grande lezione civile e popolare di Ottone Rosai, per cui sul piano espositivo il pas­saggio alla Galleria Numero dovette essere mediato da precedenti mostre pres­so la giovane Galleria dell’Indiano, allora diretta da Piero Santi. Ora se ci spo­stiamo geograficamente da Firenze alla Versilia abbiamo modo di riconoscere l’altrettanto importante presenza per i giovani pittori come Puliti di Lorenzo Viani. Abbiamo così per entrambi i gruppi il retroterra propizio per una pittu­ra ancora vissuta direttamente dall’uomo, abitata dai suoi fantasmi e dalla sua inquetitudine. Basterebbe pensare al « Mulino in Versilia »« La baracca » abitata da povertà e squallore, da silenzio ed abbandono. Il riconoscimento di un simile atteggiamento culturale e disposizione artistica per Puliti ci sembra il primo fatto rilevante in questa ricostruzione che così inizia a liberarsi dalla in­sistita ghettizzante opinione orientata a ritenere di scarsa incidenza culturale l’esperienza di coloro che operano nei centri minori, in quei tanti che danno vita alla tanto biasimata `provincia’.
Ulteriormente confortato da questo esempio rinnovo quindi la mia fiducia nella carica di vitalità e di creatività segretamente racchiusa in maniera artico­lata nella provincia italiana. Questo riconoscimento e questa rinnovata fiducia sono motivi che debbono altresì valere come indicazione polemica e duramen­te critica verso quelle grandi manifestazioni artistiche megametropolitane abi­tate da un’aria sempre più asfittica e carica di morte. Un clima dettato da « ignoranza o, se non l’ignoranza, da menzogna » (G. Testori) per cui si « sono fatte fuori ancora una volta con un settarismo vergognoso ed oggi inaccettabile tutta la pittura dipinta e la scultura scolpita » (D. Micacchi), il tutto magistral­mente orchestrato da un lucido gioco di mercato. In questa pesante volontà di distruzione, sempre più sorretta pratiticamente, si collocano le grandi manife­stazioni, Biennali e Triennali, popolate solo dagli espositori e dagli amici e parenti di questi, mentre ad operatori che come Arturo Puliti conducono un la­voro costante e incisivo sul tessuto artistico italiano, é tassivamente preclusa una qualsiasi presenza.
Una perdita sul piano culturale ed umano che ci sembra assolutamente enorme per l’intera società. Vanno così in fumo le tante dichiarazioni di dispo­nibilità alla verifica interdisciplinare dei linguaggi, al `democratico’, nel signi­ficato di dialettica dei rapporti e delle realtà, confluire dei contributi e di tutti i tentativi per affrontare scientificamente i nodi scoperti e quelli nascosti insiti nell’opera d’arte , e nel suo percorso nella Storia.
Tornando al nostro specifico, ritengo che il successivo ciclo dedicato alla rilettura di Kafka ci mostri, con lo spostamento linguistico verso una crescien­te precisione e sinteticità, la continua rapportazione di Puliti al dibattito arti­stico più avanzato sempre con indicazioni autonome e personali. È il tempo, gli anni tra 1955 1960, della ricerca di un linguaggio pittorico monocromo, giocato soprattutto su i grigi opachi e fuligginosi, ed al tempo stesso inquietanti. Una `metamorfosi’, parafrasando il più famoso testo di Kafka, di espressione verso un’astrazione intellettuale e psicologica, verso un raccontare disteso solo in apparenza, solo tracciato e con delicatezza assoluta. Un ciclo di grandi qua­dri che testimoniano ancora della volontà di Puliti per esperienze nuove, per la ricomposizione del linguaggio pittorico dopo la stagione informale, per cui si tende alla elaborazione di una grammatica segnica e cromatica essenzializzata. Una tendenza che Puliti rispetta ed approfondisce tutt’oggi. Evitando i raffred­damenti e gli asetticismi propri dell’astrazione pura il discorso di Puliti vede coinvolgere al suo interno la contemporaneità di umori severi e racchiusi nel profondo, lo spazio contradditorio dei sentimenti, le spinte esistenziali: dell’eu­foria socio economica del decennio ’60, Puliti ed i più sensibili artisti, primo fra tutti Novelli, ci rendono un critico ripensamento, una osservazione carica di timori e di disillusione. Uno spirito di tragica preveggenza che da sempre e senza retorica caratterizzata la presenza di un vero artista.
Tracce grigie e segni di una mutazione interiore « le mie braccia ed il mio cervello non hanno altro desiderio che quello di allungarsi e restringersi continuamente come dei lombrichi o come la nostra terra che sembra respiri provocando terremoti » ricordando ancora Novelli con i lavori di quegli anni , un sofferto ricercare lo spazio nella stesura del colore, mosso da impercetti­bili ombre. Questi quadri, possimano oggi ben dire, essere una tappa importan­te nella storia dell’arte contemporanea ed in una occasione più specifica degni di essere studiati con ulteriori confronti e ricerche.
La tendenza all’introspezione ed alla riflessione silenziosa, grazie anche a quel referente particolarmente
profondo che è la letteratura di Kafka assume una sempre più netta presenza nei successivi lavori di Puliti.
Nascono nel 1970 il ciclo dell’« Eros » letto con passione da Piero Santi, nel 1974 il ciclo dedicato agli « Spazi fiorentini » studiato da Raffaele De Gra­da ed ancora il ciclo per le poesie di Mario Luzi nel 1976. In quest’ultimo tro­viamo conferma di una particolare vocazione dell’artista versiliese ad istaurare un dialogo creativo con i fatti della letteratura. Ricorderei a questo proposito un passo di Roberto Longhi, che per primo, come ricorda simpaticamente il Presidente Polacci nella sua introduzione, offrì sostegno e stima al gruppetto di giovani pittori del Forte, un passo espresso in un saggio del ’50 su `Paragone’: « Nulla di estetizzante dunque sia ben fermo, è nell’esigenza qui espressa di ri­consegnare la critica, e perciò la Storia dell’Arte, non dico nel grambo della poesia, ma certamente, nel cuore di un’attività letteraria, che ne sono sicuro, non potrà mai essere `letteratura di intrattenimento’».
Ora se per i primi cicli tanto attentamente si è scritto e documentato vor­rei soffermarmi qui sul valere del ciclo luzziano nel quale Puliti trova riconfer­ma alla sua insistenza analitica.
La lettura del testo poetico è affrontato dall’artista in maniera capziosa e filologica per comprenderne l’orchestrazione generale e scavarne i sottointesi reconditi, la abbreviazione e le spezzature repentine. Ed allora nuovamente appaiono i termini di una poesia quotidiana, percorsa dalla luce nitida delle Apuane e del mare, avvolta dai silenzi profondi degli inverni versiliesi, mentre negli interni isolati si compiono a `unioni mentali’. Ancora alle sgrammatica­ture pittoriche ed agli ardori civili del Viani della Darsena di Viareggio, ri­spondono, dalle tenere spiagge del Forte, i silenzi riflessivi di Puliti. Andrebbe allora osservato, l’artista ed il suo disporsi al lavoro nella studio dove raramen­te, per pudore e timidezza, non escluso un riserbo alchimista per la prepara­zione dei colori, è permesso l’ingresso ad occhi indiscreti. Ma da questi spazi e da questi silenzi, da questa geometrica lucidità del segno, dalla scalatura legge­ra ma intenza e spesso acida dei rosa e dei viola , sorgono ad un occhio attento e sensibile le problematiche eterne dell’uomo ed inpercettibilmente tutti i fatti che ne compongono l’esistenza.

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