Domenico Pievani – Chiari del Bosco

domenico-piovani

di Andrea B. Del Guercio

Milano, marzo 1992

La Scultura dello Spazio

 L’introduzione critica al volume monografico di Do­menico Pievani mi permette di affrontare in termini specifici una componente problematica all’interno ampio dello stato e dei caratteri della scultura contemporanea. Se a cavallo degli anni ’60 e ’70, ripren­dendo ed approfondendo fatti del futurismo e del dadaismo, il confronto della cultura plastica con lo spa­zio risultò aperto e mobile, interdisciplinarmente teatrale attraverso la performance e l’installazione, oggi si avvertono progetti e produzioni tese ad includere lo spazio, oltre il suo valore puramente concettuale, all’interno dell’opera tangibile
Nel lavoro recente di Pievani, lungo una maturazione costruita per approfondimenti mirati, l’opera non si presenta aggiuntiva, invadente lo spazio, non inter­viene in forma di realtà esterna proiettata sulla scena ed in grado di mutare lo stato di fruizione e parteci­pazione, ma include, produce lo spazio, si fa habitat.
Esiste un’immagine fotografica che ritrae Pievani im­pegnato in scena, estrapolata cioé dal `viaggio’ attivo in una lunga e ricca esperienza di teatro, intensamen­te partecipe e coinvolto sul piano psichico e fisico; la carica di concentrazione, l’energia attivata è tale da assorbire e quindi auto produrre il concetto di spazio; l’uomo non è ospite momentaneo di un contesto dato ma acquisisce una centralità ospitante, produce cioé una forza di attrazione dall’esterno verso l’interno; l’uomo in questi termini è lo spazio, è l’habitat in cui gravitano le `suppellettili’.
Ho visitato solo alcuni mesi fa lo studio/laboratorio di Pievani avvertendo subito di entrare all’interno del suo spazio scultoreo, di vivere cioé, di essere ospite attivo, di attraversare e frequentare la sua cultura plastica. Nella prima porzione di studio interagiscono compo­nenti strutturali, costruzioni funzionali forti libre­rie, scale, soppalco atte a predisporre un itinerario agibile labirintico per altri dati tangibili ed attivi, an­che delicati piccole opere e carte di studio. Nella seconda porzione di studio, superato un ingres­so restringimento per la memoria di Lewis Carroll, incontriamo le opere nell’opera, per cui ancora l’ope­ra è lo spazio e l’ospite l’opera.
Con questo bagaglio di esperienze ed informazioni possiamo inoltrarci in una produzione espressiva re­datta in un decennio ed in questa sede editoriale rac­colta; possiamo cioé muovere tra il “Giardino la dove secondo la favola la notte si incontrano i lancia­tori di pietre” del 1984 e “Kepos” del 1985, dove si determina una cultura compositiva, per aggregazione, di installazione per un territorio antropologicamente caratterizzato, vissuto dall’uomo attraverso i manu­fatti di una originaria cultura dei materiali, e quindi giungere al “Giardino dell’esercizio” e ai “tramutamenti del fuoco alternanze della luce”, opere ferraresi naturalmente metafisiche del 1990 e del 1991 dove respirare una sacralità teatrale, un habitat cioé predi­sposto alla percezione lirica del gioco documentario di interno esterno.
Ma prima di giungere agli ultimi lavori è utile sotto­lineare la presenza di una serie severa di manufatti che hanno avuto il compito di costruire un percorso verso il possesso concettuale dell’habitat; se si osserva “Tre presenze per gli antenati” del 1985 o “Ritmo arcaico” del 1986 si riconoscerà come l’attenzione costruttiva e compositiva sia rivolta verso una storia dell’uomo non museologizzata ma presente nella quotidianità, attiva cioé e presente, che determina le qualità dello spazio.
In questo clima “Tre Steli” del 1989/90 e “Senza ti­tolo” di questi giorni, ci permettono di avvertire la carica di attrazione per una realtà che tridimensiona­lizza il nostro paesaggio mentale, il nostro ricordo profondo; sono le colonne rosso calde del larice, il grigio assorbente, sudario manipolabile del piombo, nitida purezza del bianco lino.