Frammenti di Cultura Visiva a Forte dei Marmi 1880/1940

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di Andrea B. Del Guercio

1983

Prefazione

Da anni e nelle più diverse occasioni editoriali, si ricorda il periodo prescelto dalla mostra e quella ricca comunità culturale che caratterizzò; da più qualificate parti e di tempo, è stato espresso il desiderio di ricostruire e recuperare scientificamente questo passato in modo tale che questa eredità non si disperda e che nuove generazioni possono portare dal punto di vista degli addetti ai lavori nuovi contributi di indagine e quindi per i nuovi fruitori occasioni di comprensione del nostro recente passato.
Questa prima iniziativa “1880-1940 frammenti di cultura visiva a Forte dei Marmi” intende avviare, grazie al recente raggiungimento di una prima sede espositiva stabile, il primo passo per il recupero, nel caso attuale emblematico e non gratificante di questa avventura culturale; la mostra e questa edizione che ne illustra i contenuti presenta quindi uno spaccato senza presunzione di compiutezza, vista la complessità del problema, de lavoro creativo svolto da numerosi artist che scelsero questa porzione di Toscana per brevi o lunghi soggiorni.
L’articolazione e la qualità altissima, internazionale che l’Esposizione dimostra ha il compito di indicare per il futuro i grandi spazi ancora da indagare e da conoscere, primo fra tutti quell’enigmatico spirito che ha raccolto a Forte dei Marmi ed in Versilia tanto lontane e diverse personalità.
L’esposizione quindi nasce con il compito d suggerire per l’immediato futuro un lavoro d ricerca programmatica per autore o per comunità culturale, dalla quale ricavare i termini per nuove e specifiche esposizioni; il complesso di tali iniziative e sforzi permetterà altresì, ed è questo il risultato prospettico, i concepimento di un Museo Documentario e Centro di Studi.
Tale iniziativa, prevista già da tempo quale sua naturale sede nel Fortino Mediceo, posto al centro e simbolo della città, avrà i compito, sul tipo di quello già avviato a Ferrara per la Pittura Metafisica, di raccogliere materiale bibliografico, fotografico, documentaristico, relativo agli artisti ed al loro lavoro con specifici rapporti con le realtà territoriali versiliesi e di Forte dei Marmi, quindi nei modi e nelle soluzioni di volta in volta risultate possibili attraverso il recupero di opere di questi stessi autori.
La realizzazione di un tale particolare museo, rispondente all’esigenza di conoscenza moderna, e quindi allargata, permetterà e promuoverà lo sviluppo delle ricerche scientifiche da parte di nuove generazioni di studiosi italiani e stranieri. Ci auguriamo che con questa iniziativa, svolta nelle difficoltà a economiche ed organizzative che il difficile a momento ha imposto, possa essere un reale e concreto avvio per il raggiungimento di ta­le fondamentale risultato.
Non escludiamo d’altra parte che la realizza­zione di un tale fatto possa avere anche il ruolo di incitamento e stimolazione per quelle presenze creative che ancora si riconoscono, in rapporto di continuità con questa area geografica, penso alle giovani generazioni di artisti che vennero e frequentarono e frequentano Forte dei Marmi a partire dal o dopo guerra, ed ancora quegli operatori nati ed operanti a Forte di Marmi.

Introduzione

In un momento di prima indagine sul vasto arco di tempo e le diverse personalità che in esso si riconobbero a Forte dei Marmi, mi è sembrato utile e quindi stimolante ripercorrere attraverso alcune testimonianze lettera rie il clima sociale nel quale tali personalità si venivano a collocare. Numerosi sono ancora gli scritti non tradotti di personalità d lingua tedesca che frequentarono le case dei Bócklin, degli Hildebrand, attraverso le quali è possibile ricostruire la vita di questi primi insediamenti. I primi decenni di presenza della comunità tedesca furono caratterizzati da serenità, ampi spazi di riflessione e studio, lettura, secondo quello stesso spirito che caratterizzava la vita invernale di Firenze e Fiesole: nella raccolta di lettere scritte da A. Von Hildebrand si ricava l’immagine di una comunità raccolta e ristretta, fortemente impegnata nell’elaborazione culturale, e quindi di un artista proiettato sul proprio lavoro. Il carattere appartato e riflessivo si conservò per queste prime famiglie e per i suoi discendenti anche nei primi decenni del ‘900. La progressiva crescita numerica di tale comunità concretizzata dalla costru­zione di sempre più numerose ville, portò di conseguenza una vivacizzazione generale; un costante interscambio culturale, una progressiva internazionalizzazione interdi­sciplinare.
Al già alto livello sociale nonché culturale rappresentato, come già ricordavamo dai Bócklin e dagli Hildebrand e dai loro ospiti si aggiunse la presenza delle grandi famiglie dell’industria europea.
Alla serietà e all’isolamento conservato da quelle prime famiglie tedesche e dai loro amici italiani quali i Corsini ed il pittore Vi­ner, nato e residente in Versilia, fa riscontro e si articola in chiave mondana la vita del Forte e degli intellettuali e degli artisti che a partire dagli anni ’20 andranno numerica­mente crescendo. In un famoso racconto di Thomas Mann, “Mario e, il mago: una tragica esperienza di viaggio” del 1929, si ricava per­fettamente il quadro della situazione e in particolare il disturbo arrecato alla serenità dello scrittore dalle frotte di turisti, di parve­nu, di quelle allegre e confusionarie compa­gnie che avevano preso possesso delle spiagge, delle pinete, degli alberghi di recen­te costruzione.
“Torre Venere (dove, però, è inutile guardarsi intorno in cerca della torre cui va debitrice del nome) costituisce, come località per stranieri, una propagine della vicina stazio ne rinomata; luogo, per alcuni anni, di idillio per poche persone, rifugio agli amici dell’im­perituro elemento… Torre è stata insignita di un Grand Hotel; numerose pensioni di lusso e più modeste sono sorte; i proprietari e af­fittuari di ville e giardini non godono sul ma­re e sulla spiaggia più di una pace indistur­bata… Un brulichio di bagnanti che gridano, si leticano, esaltano, con il dorso spellato da un sole tremendo… Insomma, il mese in cui conviene recarsi a Torre di Venere è il set­tembre, quando il grosso della folla ha sgomberato, oppure a maggio, prima che la temperatura equorea sia tale da indurre il meridionale a tuffarsi”. (ED. Mondadori 1965).
Al tono disturbato del Premio Nobel, ed in rapporto con la comunità tedesca già esi­stente, si contrappone il carattere sdramma­tizzante di Riccardo Bacchelli disponibile a comprendere e partecipare alla vita assunta da Forte dei Marmi nel decennio precedente la seconda guerra mondiale: “Sull’ora del crepuscolo, il convoglio entrava nell’abitato del Battifredo di Focefrigida: cinque o sei dozzine di casette a un sol piano, il fortilizio da cui il paese prendeva nome. Ai lati della spianata chiamata piazza, quattro botteghe: l’appalto dei sali e tabacchi, la macelleria, lo stambugio del ciabattino e la merceria del fu soprannominato Chinesino, dove c’era spac­cio universale di merci varie terriere e mari­naresche; grandi platani antichi e bellissimi ombreggiavano il caffè… dalla parte di terra la spianata era aperta sui campi e sopra am­pia veduta dell’alpe da cui provenivano i marmi… dalla parte del mare la spianata era chiusa dalla modesta mole del Forte… Con­sisteva d’una facciata piana, con una porta dagli stipiti e dall’architrave modestamente ornate d’un elegante intaglio consunto, con qualche finestra stretta e d’inferriate mas­sicce; dalla parte guardante il mare, il Forte s’arrotondava in un bastione semicircolare a scarpa piuttosto ripida di muratura rossa­stra con un cordone di marmo a coronarla dove principiava il parapetto della piattafor­ma… La spiaggia era una bellezza: ampia, dolce, spianata e lievemente ondulata dal vento e dalle mareggiate, era di rena finissi­ma e profonda, d’un grigio tenero, su cui il sole metteva bagliori argentei e fulvi, e can­gianti colori col variare delle luci diurne dall’alba splendida che sorgeva dai monti, ai tramonti sontuosi del sole nel mar Tirreno… Nella rada del Battifredo s’addentrava in ma­re di poco fondo il ponte caricatore, di vec­chio legno impeciato, a cui attraccavano modesti navigli dei piccolo cabotaggio mar­mifero, navicelli sgraziati, scune tozze, e qualche agile goletta. Quelli di maggior pe­scaggio dovevano terminare il carico all’an­cora, più a largo, coi barconi. In cima al pon­te nero stava familiare una vecchia gru tinta di minio tutto roso e distrutto dalla salsedi­ne… Era uno di quei luoghi dove la natura sembra intesa a creare in esplicita e formale fantasia di bellezza; l’uomo, e specialmente il moderno è raro che vi metta le mani e non guasti; ma in allora il fortilizzio e il paesotto, colla loro discreta presenza, anzi che gua­stare giovavano”. (R. Bacchelli il fiore della Mirabilis (Garzanti ’42)
Se queste sono le testimonianze letterarie più palesi e più direttamente legate alla pre­senza di taluni scrittori a Forte dei Marmi an­drebbe anche affrontato filologicamente il reale rapporto e l’influenza che questa città ha operato su numerosi altri scrittori: tra i più presenti basti ricordare Montale, Bon­tempelli, Moravia, De Robertis, Pea, Longhi, Malaparte e tanti altri sopraggiunti soprat­tutto nel dopo guerra.
La presenza in questa mostra di due opere inedite di Arnold Bócklin, provenienti da una collezione d’arte privata fiorentina, e ancora la presenza di un quadro a firma Cari Bóck­lin, ha il significato di confermare, tra i terri­tori culturali ancora da affrontare e studiare, i rapporti e le influenze e quindi il significato della presenza del maestro svizzero a Forte dei Marmi.
Indubbiamente il tema del mare e i perso­naggi della cultura classica a questo legati, sono stati già ampiamente studiati e analiz­zati, ma credo, come ho già avuto occasione di affermare, ricordiamo come il Forte ab­bia visto sin dalla fine dell’Ottocento la pre­senza segreta e schiva di una vasta comuni­tà di intellettuali; poeti e pittori del nord Eu­ropa sospinti ed affascinati ancora nel ricor­do e nella scia e dei viaggi di studio e di ri­scoperta proposti nel ‘700 dal Winckelmann, dal crogiolo di testimonianze di una cultura classica, romana e poi rinascimentale e poi barocca, rintracciabile nei musei ma soprat­tutto ancora intessuta nella vita quotidiana della popolazione… Ora se l’Italia nella sua globalità presentava ancora quel mondo an­tico e mostrava seppure mestamente ed in maniera confusa e dispersa i ricordi e le te­stimonianze di quelle stagioni e di quell’età felice, la Toscana particolarmente intatta con la sua cultura etrusca, romanica e soprattutto rinascimentale gioca sin dalla fine del secolo XIX il ruolo di un ripensamento più attento di quegli archeologici entusia­smi illuministici, e materiale per fornire ri­sposta o porre quesiti a questo nuovo seco­lo, il ‘900, ed a questa nuova società, la so­cietà industriale.
A Forte dei Marmi l’incontro culturale su questi diversi argomenti fu particolarmente felice e la loro varia interpretazione e perio­dizzazione si riconosce nelle opere dei poeti romantici e decadenti inglesi e tedeschi, nei pittori svizzeri ricchi di poetiche epico silva­ne fino alle enigmaticità metafisiche ed allo spirito ricostruttivo della tradizione rinasci­mentale della pittura italiana. (in cat. Henry Moore Forte dei Marmi ’82).
Nel caso tanto particolare del Bócklin si av­verte come questo ripensamento sul mondo classico sia condotto attraverso l’apporto vi­talistico di dati culturali epico nordici, di ori­gine barbarica, tratta da testimonianze visi­ve e letterarie ed attraverso le successive ri­letture romantiche e decadenti dell’800 tede­sco. Alla solarità classica risponde una sen­sualità primaria: la nereide dai rossi capelli nordici si distende su uno scoglio vischioso mentre nel fondo tra le rocce e il mare si av­verte la presenza di un tritone arruffato e bramoso (il quadro che al momento attuale deve ancora essere sottoposto a ripulitura per una sua più esatta lettura e quindi verifi­ca di datazione rispetto a quella poco chiara presente sul fondo dopo la firma è in ogni caso emblematico della poetica del maestro svizzero); un centauro imponente, michelan­giolesco nelle spalle, caravaggesco nella groppa e nella chioma raccolta simile ad una madonna popolare nordica, è studiata da Arnold Bócklin nel momento di un dolore profondo: il centauro maschio volge infatua­to le sue attenzioni al cliché estetico di una figura femminile umana, privo di caratteri in­cisivi perché privo di storia, mentre le nuvole romanticamente si accoppiano ed una luce chiara e fredda di luna piena penetra il bo­sco oscuro; il figlio Carlo architetto e pittore anch’egli, nonché relatore della vita e dell’opera del padre e quindi della presenza di questi a Forte dei Marmi, mi sembra rien­tri con il quadro “Scontro di centauri” nel cli­ma culturale che stiamo narrando. L’opera, un po’ scolastica per la netta divisione in due settori, presenta due contendenti ormai privi di qualsiasi sentore di aulicità e classi­cità ih quanto, anche per una approssima­zione pittorica, i corpi appaiono tozzi e privi dell’originaria eleganza, mentre i volti barbu­ti e arruffati ricordano più precisamente la struttura somatica di un antico barbaro.
La seconda metà qualitativamente migliore, e sulla quale meglio avrebbe inciso la lezio­ne del padre, illustra lo scontro romantico tra il mare in tempesta ed un’alta scogliera, sul tipo di quelle liguri citate in più occasio­ni da Arnold Bócklin.
La presenza di Adolf von Hildebrand si con­cretizzò con la costruzione di una villa di cui egli stesso eseguì il disegno e che gli permi­se di lavorare anche nei mesi estivi, oltre che ai suoi testi teorici, alle sue sculture, acqui­stando presso le cave vicine il marmo; testi­monianza della sua creativa presenza risul­tano anche da sculture eseguite e lasciate nelle ville degli amici più stretti, ed ancora dagli affreschi compiuti per villa Fasola e dal bassorilievo dedicato alla Duse incontra­ta a Viareggio nel 1909.
Una così lunga ed articolata presenza per­mette di ritenere che lo scultore e teorico te­desco abbia riconosciuto nel paesaggio e nella natura, nei fatti storici e di costume di Forte dei Marmi stimoli e suggerimenti per la sua creatività. Penso ad esempio al signi­ficato storico simbolico rappresentato dal marmo e soprattutto da quella strada delle cave che si narra aperta da Michelangelo per il trasporto dei blocchi.
Ed ancora la predilezione avvenuta negli an­ni più tardi sempre in nome di Michelangelo per la realizzazione di fontane monumentali nelle quali uomini e donne appaiono immer­si nelle acque; numerosissimi sono i disegni che documentano questa particolare scelta, ora più accademici ora più romanticamente espressivi ed altri inseriti in un clima disteso e languido.
Ovviamente se un rapporto c’è tra queste in­tenzioni creative ed il paesaggio estivo di Forte dei Marmi, questo è indiretto, non trat­tandosi di quei bagnanti che raccolsero l’at­tenzione di Carrà: ma in ogni caso suggeri­sce e conferma la scelta dello scultore per una visualizzazione delle anatomie umane in rapporto con la materia liquida.
La presenza del mare e di conseguenza della solarità, di nudità maschili e femminili nel clima di una natura distesa sono termini ca­ratteristici della pittura anche della figlia, Elisabetta Brewster.
Quest’ultima dimostra predilezione per quel paesaggio collocato al limite con il mare do­ve ancora è viva l’attività agreste; il mare non appare più visualizzato romanticamente ma si dimostra interpretato per dati di cultu­ra ora simbolisti ora neo rinascimentali sen­za che ciò pregiudichi il clima di naturalezza della scena. La pittrice passa dalle spiagge del Forte a quelle della Maremma, agli sco­gli dell’Elba, agli uliveti a terrazza di Santori­ni in Grecia. Numerosi sono infatti i viaggi della Brewster verso le isole dell’Egeo, se­condo la milgiore tradizione culturale nordi­ca dell’800 e che possiamo valutare secondo un rapporto direttamente inverso al percorso creativo di Giorgio de Chirico, che pure e non è un caso il fatto che, risulta a Forte dei Marmi, ospite del fratello Alberto Savinio, si­curamente a partire dalla seconda metà de­gli anni ’30, pur non escludendo precedenti soggiorni documentabili attraverso la pre­senza di opere del maestro di Volos, in occa­sioni espositive a Viareggio.
L’indagine sulle diverse personalità che co­stituirono la comunità culturale internazio­nale, presente nei primi decenni del secolo deve essere ancora ricostruita; andrà per esempio verificata la presenza di Walter Benjamin esponente della Scuola di Franco­forte. A distanza di tempo sono ancora nu­merose le testimonianze di tanti artisti italia­ni e stranieri ancora riconoscibili nelle colle­zioni private di Forte dei Marmi e soprattutto presso le grandi famiglie alberghiere; po­trebbero essere ancora rintracciate opere di Bócklin, di Hildebrand, di Severini, di Roma­nelli, della scultrice Poplaska, di Longanesi e Manzù dei napoletani Alceste Campriani e del figlio Giovanni, dello scultore Uccella (di cui esponiamo un bronzo “Piccolo centauro” perfettamente inserito nel clima bockliniano di cui abbiamo già trattato), di un pittore quale il Fanelli, del pisano Pizza­nelli che fu anche presente ad una delle pri­me Biennali di Venezia, con pitture su cuoio, ed ancora molti altri.
Una delle pittrici che caratterizzò la vita cul­turale del Forte fu la francese e fiorentina di adozione Elisabeth Chaplin che portava con se viva la testimonianza della seconda gene­razione simbolista, quella dei Bonnard e dei Vallotton di cui è testimonianza il quadro “Le bagnanti” del 1924/25.
Se per la comunità culturale del primo ven­tennio del secolo sono ancora ampi i territo­ri creativi inesplorati, molto è stato scritto e documentato da parte dei più qualificati esponenti della critica d’arte sulle diverse personalità artistiche italiane che furono presenti a Forte dei Marmi ed in Versilia a partire dalla fine del 1920. La definizione di questo fine decennio rappresenta sul piano storico il già avvenuto superamento delle esperienze che anche in Italia formarono le avanguardie storiche del ‘900, dal Futurismo alla Metafisica al Cubismo; il clima culturale che quindi complessivamente caratterizzava tali presenze va osservato nel movimento del Novecento teorizzato dalla Sarfatti ed a cui, aderirono e parteciparono più o meno di­rettamente molti degli artisti qui presenti, ed ancora progressivamente alle diverse solu­zioni nate dallo sciogliersi del movimento ed intorno a nuove ipotesi estetico­sociologiche; senza entrare nel merito di una così complessa situazione culturale, strettamente legata agli avvenimenti politici del periodo, e rimandando anche per questo settore ad una più specifica situazione il suo approfondimento critico, mi attengo a sotto­lineare espositivamente l’influenza che la natura, le diverse forme del paesaggio, il lo­ro valore culturale storico e metastorico, le strutture sociali di Forte dei Marmi, quanto e in quali condizioni operarono diversificata­mente sull’arte dei diversi autori. Numero­sissime sono le opere che Carrà ha dedica­to, a partire dal 1926 fino all’estate del ’65, ai soggetti estivi del Forte: dai bagnanti alle cabine, dai velieri sul mare alla pineta dove abitava.
Nel vasto arco di tempo che abbiamo indica­to questi temi seguiranno e caratterizzeran­no l’evoluzione espressiva del maestro mila­nese; di particolare interesse è un’opera as­sai meno gratificante rispetto a numerose altre, intitolata “Il bersaglio” del 1926, ano­mala sul piano della ricezione profonda per quella povertà espressa senza retorica esti­va dall’architettura e per l’acidità schemati­ca delle soluzioni cromatiche scelte. Anche per Ardengo Soffici la vita del Forte è ragio­ne di interesse creativo, le opere qui esposte esprimono un desiderio di serena e distesa poesia, così come l’opera di Tosi, entrambi lontani da qualsiasi retorica tanto crescente nella cultura di quegli anni; profondamente radicato nell’originaria cultura naturalistica è posto “Il cavallino” del Dazzi che per primo venne a stabilirsi al Forte dalla nativa Carra­ra; metafisica ancora ci appare la disposizio­ne della “Natura morta” di Funi, con quegli oggetti disposti sulla sabbia; cézanniana ma particolarmente affermativa su un piano di spessore e di tensione psicologica, risulta la “Pineta” di De Grada, che insieme al pae­saggio subito ai piedi delle Apuane fu sog­getto e tema a lungo amato ed indagato dal pittore lombardo ma tra i più vicini al mondo toscano. Colto ed immerso in un clima sola­re, “L’autoritratto” di Carena del ’30 si pre­senta con una materia cromatica libera, nel­la quale confluiscono ricordi impressionisti­ci ma diventati psicologicamente incisivi e caratterizzanti; parallelamente con il carat­tere umano e alle scelte culturali si inserisce così autenticamente vivace espressionisti­camente costruita l’opera di Maccari, sia nella “Natura morta” che nei due volti, ac­centuati nei caratteri somatici.
Adriana Pincherle, anch’essa presente nelle estati subito precedenti la guerra, esprime con l’opera “Le Apuane” i dati di una cultura visiva nata nella Scuola romana e quindi ma­tericamente intensa e significativa di una vi­vace carica emozionale.
La presenza di Alberto Savinio inizia nella seconda metà degli anni ’30 e si concretizza con la costruzione di una piccola villa pro­gettata da un personaggio estremamente eclettico quale fu il Galassi, che oltre ad al­cune ville dislocate in zona Poveromo, dise­gnò alcuni mobili per la residenza di Carrà a Roma Imperiale.
Non possiamo per Savinio e De Chirico affer­mare una predilezione dipendenza da un particolare aspetto del paesaggio così come era avvenuto per altri artisti; se delle citazio­ni precise, sono rilevabili dal paesaggio, es­se sono abbastanza rare ed in questa mo­stra vengono documentate.
Così Alberto Savinio si dimostrò più interes­sato ad immagini e sensazioni che saranno materiale per numerosi racconti spesso illu­strati; mentre De Chirico che fu all’inizio e frequentemente, ospite del fratello, sembra prediligere, nel clima di esigenze realistiche e neo courbettiane di quegl’anni, il mare ri­portandolo su opere dai soggetti diversi, na­ture morte, scene neo seicentesche e nei ri­tratti, ma soprattutto la spiaggia, quella stessa che calcava quaranta anni prima Ar­nold Bócklin, il suo primo riconosciuto mae­stro.
In un clima non troppo dissimile, dove il luo­go paesaggistico è occasione di completa rielaborazione, credo si collochino i disegni di Corrado Cagli nei quali confluiscono in un clima culturale classico i dati di solarità, nu­dità maschili come rivisitazione di scene epiche, ma pure condotte con quella sensi­bilità e profondità psicologiche che trovano completa conferma nel ciclo di Buchenwald del ’45.
I disegni per altro verso di Mirko sono stret­tamente concepiti a Forte dei Marmi e più precisamente rivolti come fu per De Grada verso “La pineta” fino alle pendici dei monti verticalmente sovrapposti. Queste opere co­sì incise esprimono perfettamente, ormai senza nessuna concessione al naturalismo, i dati di aridità del sottobosco infuocato dall’estate, lo stridore insistente delle cica­le, il fruscio delle serpi; una tale incisività anticipa la forza espressiva che Mirko espresse pienamente nelle cancellate delle Fosse Ardeatine del 1949/51.
La presenza in questa mostra di Arturo Mar­tini, che in questo periodo, fine degli anni ’30, si recava frequentemente nei laboratori di Carrara, è documentata attraverso due opere, “Torso di giovanetto” e soprattutto “La moglie del pescatore”, seguendo l’inten­zione critica, che pure ha dettato l’intero per­corso espositivo, di superare il momento esclusivamente riferito e riconoscibile nel paesaggio di Forte dei Marmi, ed operare su situazioni di superamento creativo e quindi indirizzato su significati ampi. Le due opere esposte illustrano contemporaneamente il particolare clima novecentista di Martini do­ve la riflessione sulle fonti artistiche italiane del tre quattrocento, si pensi a tanta pittura fiorentina, giottesca e post giottesca nella quale confluiscono atti e scene di vita popo­lari, mentre il “Torso di giovanetto”, è rap­portabile a quel particolare fenomeno espressivo concettuale ed anti naturalistico, che fu lo “stracciato”, si adattano ad una concezione tenera della vita, nei suoi mo­menti più poveri conservati dall’artista sen­za la più minima retorica; ed è lo stesso cli­ma carico di umanità nel quale si colloca il disegno di Lorenzo Viani, anch’egli presente con la sua vivace creatività nella comunità culturale del Forte.